ESSERE ITALIANI: LE RADICI DELLA NOSTRA COSTITUZIONE

ESSERE ITALIANI: LE RADICI DELLA NOSTRA COSTITUZIONE

di Giovanni Fiorentino*

Nel prendere la parola per illustrare il tema delle radici della Costituzione in occasione del suo 75° anniversario, mi preme anzitutto ringraziare l’Archeoclub lubrense, organizzatore della manifestazione Booksophia 2022, per avermi voluto sottrarre all’oblio invitandomi a trattare un argomento a me caro, oggetto di una mia giovanile relazione nel 1968 sotto il diverso profilo della prospettiva attuativa del dettato costituzionale da parte del sistema politico, e per avermi così dato l’occasione per rivisitarlo.

Nel 1968 si era a poco più di vent’anni dall’entrata in vigore della Costituzione e la società italiana viveva gli ultimi anni ruggenti di un boom economico che l’aveva miracolosamente catapultata da uno stato di devastazione e di povertà ad una situazione di più diffuso benessere. Era una società sostanzialmente coesa, che viveva la politica e guardava con ottimismo e con speranza al futuro, che avvertiva come il progresso civile e sociale che si era realizzato nel dopoguerra fosse anche dovuto al progressivo realizzarsi dei valori racchiusi nella Carta Costituzionale, che si interrogava sullo stato della sua attuazione e premeva perché potessero essere operanti sia la sua parte programmatica che quella ordinamentale ad efficacia differita ancora inattuata. Oggi la società italiana è profondamente mutata, la coesione sociale si è notevolmente allentata e non poche volte dissolta, la politica è guardata con sospetto quando non con disgusto e la ricerca del benessere individuale immediato mina la solidarietà sociale, rendendo fosche le prospettive delle generazioni che verranno ed anche di quelle presenti in relazione al proprio futuro.

Eppure, nonostante si sia verificata una tale rivoluzione copernicana nel sentire sociale, resta corrente l’affermazione che la nostra Costituzione è la più bella del mondo, e proprio pochi giorni fa è stato pubblicato un agile volumetto di Walter Veltroni dal titolo “La più bella del mondo” che si propone di illustrare la Carta costituzionale ai giovani. Nell’affermazione, a prescindere dalla sua veridicità, si ritrovano almeno tre concetti: un concetto identitario, che nasce dal rilievo che ogni contesto con forma di Stato debba avere delle fondamenta valoriali su cui poggiare; un concetto comparativo, che consegue al raffronto tra il profilo identitario dell’Italia come delineato nella nostra Costituzione e quelli presenti nelle Costituzioni degli altri Stati; un concetto polemico e tutto interno, che sottolinea come la positività identitaria e comparativa si debba alla sua novità rispetto allo “Statuto albertino”, carta fondante dell’ordinamento costituzionale precedentemente in vigore anche se stravolta dall’applicazione che ne fece il regime fascista. Questi concetti costituiscono tuttavia dei corollari, avendo quale loro riferimento più o meno conscio la convinzione generalizzata che la nostra Costituzione trasfonde nelle sue norme, ed in special modo nei suoi principi fondamentali, valori identitari che rendono gli italiani orgogliosi della loro storia, le cui radici risalgono agli albori della civiltà per svilupparsi nel corso dei secoli con una maturazione singolare che ha investito tutte le branche delle arti e del sapere umano, permeando di sé l’intera cultura occidentale.

Tutte le comunità umane insediate in ogni angolo della Terra, ed anche quelle amerindias di cui scrivono Claude Levi-Strauss e Pierre Clastres e le poche altre che non si reggono in forma di Stato, hanno e rispettano regole fondamentali che permettono loro la sopravvivenza individuale e della specie, finalizzandosi nel contempo alla realizzazione degli obiettivi di vita che si sono poste: tutte quindi hanno una Costituzione, scritta o non scritta che sia. Questi obiettivi hanno sempre una matrice filogenetica, comune a tutti gli esseri viventi, nella vita che vuole vivere ed espandersi anche imponendosi alle altre specie: ne possiamo avere una dimostrazione nel filo d’erba che riesce ad attecchire in una zolla ai margini di un’autostrada, ma anche nella vegetazione spontanea presente sui terreni coltivati e nella violenza dell’uomo che provvede a sradicarla.

Questa relazione, per ciò che attiene agli umani, si è evoluta in maniera diversa nei vari contesti culturali; nel mondo occidentale ha prevalso la visione giudaico-cristiana che si ritrova nel libro della Genesi (Genesi, I, 26): “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza, che domini i pesci del mare, i volatili del cielo, le bestie e tutta la terra”. Nel corso di una storia plurimillenaria a tale visione si è essenzialmente ricondotto l’immane e grandioso processo realizzativo che possiamo osservare intorno a noi e che si è imposto, sia pure in maniera non uniforme e disordinata e con modalità ed accelerazioni più spesso segnate da linee di forza confuse e contraddittorie, in un continuo divenire sovente casuale ed eccentrico ad ogni previsione, con approdi sempre provvisori ed instabili, a loro volta tappe intermedie nella percorrenza di nuovi tratti di strada in vista di ulteriori mete altrettanto precarie, in una spirale che concluderà il suo ciclo con la fine della storia.

L’esistente, per essere la risultante di un’attività umana, è in massima parte artificiale. Giacomo Leopardi, nel suo “Elogio degli uccelli” (Operette morali) osserva correttamente che “una grandissima parte di quello che noi chiamiamo naturale, non è; anzi è piuttosto artificiale: come a dire, i campi lavorati, gli alberi e le altre piante educate e disposte in ordine, i fiumi stretti infra certi termini e indirizzati a certo corso, e cose simili, non hanno quello stato né quella sembianza che avrebbero naturalmente. In modo che la vista di ogni paese abitato da qualunque generazione di uomini civili, eziandio non considerando le città, e gli altri luoghi dove gli uomini si riducono a stare insieme; è cosa artificiata, e diversa molto da quella che sarebbe in natura”. Un siffatto processo, tuttora e sempre in divenire, si è potuto realizzare perché l’uomo, l’essere vivente strutturalmente più fragile di ogni altro, privo di adeguate difese individuali rispetto alle preponderanti forze del mondo naturale circostante, ha associato la sua presenza sulla Terra, oltre che alla capacità di lavoro collegata all’intelligenza ed alla tecnica più ancora che alla forza fisica, al suo essere homo politicus. Ciò ha comportato quale ricaduta la formazione di organizzazioni e di ordini sociali via via sempre più complessi, finalizzati al raggiungimento di obiettivi comuni sempre più sofisticati, nei quali gli umani si sono inseriti più o meno volontariamente, coordinando i loro fini individuali con quelli collettivi per aver compreso in maniera empirica la necessità di avvalersi di adeguate sinergie per migliorare e rendere più sicure le loro condizioni.

In tali esigenze è la matrice dello Stato moderno, che in tanto esiste in quanto insiste su un Territorio sul quale vive una Popolazione che generalmente coincide con una Nazione, la quale necessariamente avrà obiettivi di vita più o meno condivisi e avrà quindi bisogno di un’attività di Governo che ne regolamenti le sue stesse modalità di esistenza. Tale dinamica, alla base di ogni Costituzione, costituisce la ragion d’essere anche della nostra, che individua i suoi obiettivi affondando le radici nelle varie componenti della nostra gloriosa tradizione culturale, rivisitate e contestualizzate dopo le vicende dolorose dell’ultima guerra mondiale, nella consapevolezza di dover costruire una rinnovata solidarietà sociale in grado di rimediare al dramma comune di un paese sconfitto, martoriato e privo di risorse. Non è quindi un caso che il testo della Costituzione fosse approvato con 453 voti a favore e 62 contrari, che a redigerlo fosse una Commissione che aveva come Presidente Meuccio Ruini, eletto come indipendente nell’Unione Democratica Nazionale di ispirazione liberale e moderata, che Presidente dell’Assemblea Costituente fosse il comunista Umberto Terracini: quest’ultimo nel 1978, nel volumetto “Come nacque la Costituzione”, ricorda infatti come lo spirito dei Costituenti fosse di piena collaborazione e di affiatamento completo, senza che mai si verificassero situazioni tese, discussioni acrimoniose, o contrapposizioni individuali.

La Costituzione italiana vigente è una costituzione lunga, che definisce l’organizzazione dello Stato e rivolge la sua attenzione anche ai diritti dei cittadini ed ai rapporti etici, sociali ed economici, diversamente dallo Statuto Albertino che si concentrava soprattutto sull’Organizzazione dei poteri e si soffermava sulle garanzie statuali in difesa delle libertà individuali; è anche una Costituzione rigida, in alcune parti immodificabile, che esige per la sua modificazione o integrazione una doppia lettura ed una maggioranza parlamentare qualificata nonché un’eventuale ratifica popolare, per avere i Costituenti constatato come lo Statuto Albertino, per la sua flessibilità, si fosse rivelato inadeguato a fare da argine alla deriva liberticida dello Stato fascista.

I capisaldi del disegno costituzionale, che informano di sé tutto il sistema e si interconnettono in modo stringente con l’ordinamento dello Stato così come organicamente previsto ed in parte attuato per effetto dell’entrata in vigore della stessa Carta, si ritrovano tutti nell’art. 1, essendo suoi corollari i successivi articoli che delineano i suoi principi fondamentali, l’elencazione dei diritti individuali sociali ed economici, la definizione del perimetro del potere e delle funzioni e modalità di controllo reciproco dei vari organi dello Stato.

L’art. 1 recita: L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. La norma, all’apparenza semplice e piana, non rende percepibile ad un interprete superficiale la sua profonda pregnanza, di cui è prova la sua sofferta elaborazione tracciata nella verbalizzazione delle sedute della Commissione dei 75 e poi dell’Assemblea Costituente.

L’originaria formulazione del primo periodo proposta dal relatore Togliatti, capo del partito comunista, fu “Lo Stato italiano è una Repubblica di lavoratori”. Essa venne respinta, ed in sua vece venne approvata in prima battuta quella del Comitato di coordinamento: “Lo Stato italiano è una Repubblica democratica. Essa ha per suo fondamento il lavoro e la partecipazione concreta di tutti i lavoratori all’organizzazione economica, sociale e politica del Paese”. La stesura del secondo periodo era: La sovranità dello Stato si esplica nei limiti dell’ordinamento giuridico formato dalla presente Costituzione e dalle altre leggi ad essa conformi. Tutti i poteri emanano dal popolo, che li esercita direttamente o mediante rappresentanti da esso eletti”.

Nel corso della discussione la Commissione dei 75, incaricata dell’elaborazione del testo, rilevato come il riferimento accentuato allo Stato ed alla sua sovranità conferisse alla dizione dell’articolo un significato equivoco, inadeguato a dare percezione della forte discontinuità valoriale su cui fondava il nascente ordinamento, pervenne alla seguente elaborazione conclusiva di Progetto: “L’Italia è Repubblica democratica. Essa ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del Paese. La sovranità emana dal popolo e si esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi”, che venne ulteriormente rimaneggiata in Assemblea fino a pervenire all’attuale formulazione finale.

Soggetto e protagonista della vita costituzionale è l’Italia, intesa sotto il profilo geografico come ambito territoriale coincidente con il “bel paese che d’Appennin parte, ‘l mar circonda e l’Alpe” di petrarchesca reminiscenza (Petrarca, Canzoniere, Sonetto CXLVI), ma anche come aggregato culturale “Nazione” che si ritrova finalmente “una d’arme, di lingua, d’altare,// di memorie, di sangue e di cor” di manzoniana memoria (Manzoni, Ode Marzo 1821): si ritrova, perché agli albori del Risorgimento, quando Metternich rilevava come l’Italia fosse solo un’espressione geografica, Byron nel “Childe Harold’s Pilgrimage” si doleva per la sua decadenza presente a fronte della grandezza del passato e Alphonse de Lamartine l’appellava “terra di morti” in “Le dernier chant de pelegrinage d’Harold”, il disegno unitario viveva solo come il sogno di una minoranza di patrioti, tant’è che realisticamente Massimo D’Azeglio dopo l’Unificazione osservava come, fatta l’Italia, occorresse fare gli Italiani; si ritrova, perché quel miraggio di pochi divenne patrimonio comune di un popolo divenuto Nazione avendo come cemento il sacrificio generalizzato dei suoi cittadini in due guerre mondiali, ed in particolar modo le sofferenze causate dall’ultima, che ancora avvertiva sulla sua carne viva. Quest’Italia, che durante le ultime fasi della seconda guerra mondiale si era spaccata in due ed aveva di fatto perso la sua connotazione di Stato sovrano, dovendo assoggettarsi alle direttive dei tedeschi nella Repubblica Sociale Italiana ed a quelle angloamericane nel Regno del Sud, con la Costituzione orgogliosamente riafferma la sua dignità di Stato, e peraltro con modalità per essa inedite che coinvolgono tutta la sua gente e si riportano al suo essere una Repubblica democratica.

 La scelta repubblicana costituisce un elemento di frattura rispetto al passato e ribalta la stessa prospettiva della detenzione teorica della sovranità. Nel previgente Statuto albertino il potere della Monarchia era ancorato alla grazia di Dio e solo subordinatamente alla volontà della Nazione: al Re erano attribuiti in esclusiva il potere esecutivo ed ancora la possibilità di intervenire nel procedimento legislativo, anche se la Costituzione vivente escludeva di fatto tali inframmettenze nella gestione delle funzioni di governo, ed a concessione regia erano sostanzialmente riferiti i diritti civili e politici. Con la diversa impostazione repubblicana i diritti individuali e sociali vengono espansi, ma soprattutto appartengono al cittadino in quanto tale, alcuni in quanto ricollegabili al diritto naturale, tutti perché lo Stato è “res publica”, ovvero affare di tutti, e perché la stessa volontà popolare, che costituisce la sola fonte di legittimazione del suo potere, può formarsi solo attraverso il loro pieno e libero esercizio.

Riandando al periodo risorgimentale, può ben vedersi come il sogno di una Repubblica non fosse estraneo alle sue speranze, trovando fautori tra gli altri in Mazzini ed in Pisacane, ma anche in molti altri patrioti, come Crispi e Garibaldi, che quel progetto accantonarono ritenendo che dovesse segnare il passo a fronte della prioritaria esigenza della realizzazione dell’unificazione territoriale prima e nazionale poi, attuabile realisticamente sotto l’egida del potere di Casa Savoia. Era soprattutto in questo incastro il collante dell’assetto istituzionale monarchico dello Stato in Italia; venuto quindi esso meno per effetto del poco regale comportamento di Vittorio Emanuele III, che con la fuga da Roma dell’8 settembre si sottrasse alla sua funzione di Re lasciando la Capitale indifesa preda delle scorrerie dei tedeschi, la via per il mutamento istituzionale e l’avvento della repubblica era ormai spianata. Il popolo italiano con un referendum prescelse per lo Stato la forma repubblicana prima ancora che si redigesse la Costituzione ed il legislatore costituente di tanto prese semplicemente atto, solo blindando tale scelta con l’art. 139 che recita: La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”.

L’ulteriore specificazione rafforzativa della democraticità della Repubblica, all’apparenza del tutto pleonastica per doversi considerare un ossimoro il riferimento ad una res publica che non sia di tutti, non è tale se si considera la presenza in quel contesto temporale non solo e non tanto della memoria della recente esistenza nell’Italia divisa in due della Repubblica di Mussolini, la Repubblica Sociale Italiana, quanto per la coeva vigenza nei Paesi dell’Est Europa di un sistema di potere accentrato in una sola forza partitica che considerava il valore lavoro in maniera escludente: con tale sottolineatura infatti si vuole ridimensionare la valenza del controverso inciso “fondata sul lavoro”, dando a questo una precisa caratterizzazione di norma programmatica, finalizzata a costituire un impegno di ordine morale e politico per l’azione di ogni futuro governo.

L’inciso “fondata sul lavoro” trova ingresso nella carta costituzionale a seguito di un acceso dibattito e costituisce l’alternativa sia al più tradizionale riferimento di principio alla garanzia dei diritti di libertà presente in molte Costituzioni sia a quello orientato e di parte contenuto nella dizione “una repubblica democratica di lavoratori” proposta da Togliatti e respinta di stretta misura. Per avere una corretta percezione della disputa va considerato che, nella coscienza sociale dell’epoca, lavoratori erano solo gli operatori del braccio, e vi erano persino dubbi se in tale categoria rientrassero i maestri ed i professori. In tale novero, se di sicuro non si sarebbero potuti includere coloro che vivevano di rendita o si dedicavano ad attività improduttive di valore aggiunto, nemmeno potevano a rigore esservi coloro che esercitavano le libere professioni, gli imprenditori, i commercianti ed il numeroso stuolo di suore, frati e sacerdoti che rendevano intensa ed animata la vita religiosa: di fatto, un riferimento così puntuale avrebbe contraddetto sia la stessa configurazione dello Stato come res publica sia la sua democraticità.

Eppure, lo spettacolo desolante di un Paese distrutto, la volontà sociale della sua ricostruzione, la presa d’atto del ruolo assunto dalle masse nella costruzione dello Stato repubblicano imponevano la constatazione storica di come fossero associati al lavoro il patrimonio perduto e quello residuato, oltre che la speranza di riscatto di un Paese strutturalmente povero di risorse naturali ma ricco di memorie di civiltà e di voglia di fare; peraltro gli stessi diritti di libertà, su cui pur si sofferma diffusamente il testo costituzionale in numerosi articoli, avrebbero avuto concretezza solo se ancorati a quell’indipendenza economica che il lavoro e in via sussidiaria la solidarietà sociale possono assicurare, essendo per la gente comune privi di senso se risolventisi in mere enunciazioni astratte. Tale coacervo di memorie, di prese d’atto e di speranze costituisce il sostrato dell’espressione “fondata sul lavoro”, che nella sua genericità resta onnicomprensiva di ogni attività che possa concorrere allo sviluppo materiale e spirituale della società ed assume quindi una importanza del tutto speciale: per essa il lavoro così determinato viene assunto come fondamento del contratto sociale insito nella Costituzione repubblicana ed elemento di raccordo tra le passate e presenti generazioni che nell’esistente hanno ereditato il frutto del lavoro dei propri antenati, e tra quelle presenti e quelle future, che solo dal lavoro e dalla sua valorizzazione possono sperare ed attendersi la prospettiva di migliori condizioni di vita.

L’affermazione successiva che “la sovranità appartiene al popolo” può sembrare una naturale conseguenza della scelta repubblicana e della scelta democratica; in realtà anch’essa è stata oggetto di ampie discussioni e può apparire in sé contraddittoria, se successivamente il suo pieno esercizio viene compresso nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

In un gustoso dialoghetto scritto dal reazionario Monaldo Leopardi, padre del più famoso Giacomo, nei primi anni dell’800, quando era di moda avere idee avanzate sulla sovranità popolare, un dotto interprete della modernità voleva convincere Pulcinella, uomo comune, ad abbracciare le idee nuove che venivano dalla Francia. E Pulcinella domanda: “Chi è sovrano se non è sovrano il re?” Ed il dottore: “Il popolo”. E Pulcinella: “Se è il popolo che comanda, a chi toccherà di ubbidire?”. Ed il dottore: “A tutti”. E Pulcinella: Oh malora! Tutti hanno da comandare, e tutti hanno da ubbidire? E se avrò da ubbidire, cosa servirà che io sia sovrano?”. Ed il Dottore: “Sarai sovrano come popolo, ed ubbidirai come Pulcinella”. E Pulcinella: “Quando è così, ho paura che comanderò poco”. Ed il Dottore: “E perché?”. E Pulcinella: “Perché d’esser popolo non me ne accorgo mai, e d’esser Pulcinella me ne accorgo sempre”.

L’affermazione va quindi chiarita, essendo impensabile che negli stati moderni, la cui organizzazione è necessariamente complessa ed i cui compiti sono sempre più numerosi e delicati, possa attuarsi una democrazia diretta che, al di là di ipotesi ben precisate e peraltro poco praticate anche quando praticabili, esondi dalla indicazione di indirizzi politici generali, dalla scelta di coloro ai quali vengono delegati i pubblici poteri, dal controllo sopra il modo con cui detti poteri vengono esercitati; peraltro il popolo non è un monolite, vivendo ed esprimendosi al suo interno sensibilità ed interessi vari e diversificati. La stessa volontà popolare, in forza della quale è bene non dimenticare che non a Barabba ma a Gesù venne riservata la crocifissione ed a Socrate imposto di bere la cicuta, è quindi da configurarsi come la volontà maggioritaria dominante in un definito contesto di tempo e di luogo; Benjamin Constant, che aveva vissuto in prima persona le drammatiche vicende della Rivoluzione Francese e del giacobinismo, così si esprimeva: Il principio della sovranità popolare … potrebbe diventare una calamità in sede di applicazione. … Il riconoscimento astratto della sovranità non vale per niente ad aumentare la somma delle libertà individuali; e se si attribuisce a questa sovranità un’estensione che non deve avere, la libertà può essere perduta malgrado tale principio, o addirittura a causa di esso” (Benjamin Constant, Cours de politique constitutionelle).

E’ in funzione di tali legittime preoccupazioni che, nell’alinea finale dell’articolo, si chiarisce che la sovranità popolare si esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”: nelle forme, ovvero attraverso il sistema ordinamentale che lo stesso legislatore costituente ha previsto come ossatura portante dello Stato perché gli stessi principi cui è informata la Costituzione abbiano ad attuarsi; nei limiti, ovvero nel rispetto di quei diritti individuali e sociali definiti e precisati negli articoli successivi quali diritti fondamentali della persona umana.

Si rovescia quindi la prospettiva dello Stato etico, che era stata la matrice dei regimi totalitari. Alla visione del cittadino funzionale allo Stato si sostituisce quella dello Stato funzionale alla persona ed alla società umana, titolari di diritti inviolabili che lo Stato riconosce e garantisce: riconosce, e quindi – in armonia con la tradizione romanistica e giusnaturalistica, fatta propria dalla filosofia scolastica – ritiene connaturali all’uomo e correlati al suo stesso esistere; garantisce, e pertanto tutela con una difesa attiva, impedendo che essi possano essere compressi da fenomeni sopraffattori. Al tempo stesso, avvertendosi come le affermazioni di principio siano solo scritte su un pezzo di carta se i diritti non vengano anche vissuti come doveri dal corpo sociale, a tutti i consociati viene richiesto l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, in continuità con la tradizione mazziniana per la quale l’esercizio dei diritti deve essere responsabile e mirato alla realizzazione del bene comune e della giustizia sociale.

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La lettura critica del primo articolo della Costituzione, che costituisce il pilastro sul quale poggiano tutte le successive statuizioni, ed in specie le norme di orientamento per l’attività degli organi dello Stato, ne ha reso evidenti le radici risorgimentali liberaldemocratiche, riprese e rivisitate alla luce delle successive esperienze di circa un secolo e delle tormentate vicende del decennio che immediatamente precedette la sua promulgazione. Nella Costituzione risuona l’eco della voce dei nostri avi che hanno fatto l’Italia: del Mazzini, nel richiamo ai doveri inderogabili di solidarietà associati all’esercizio dei diritti; del Cavour, nella tutela della libertà religiosa dei singoli e delle diverse confessioni; del Cattaneo, nella promozione e valorizzazione delle autonomie locali; del Beccaria, nell’abolizione della pena di morte; di Salvatore Morelli, un italiano ingiustamente dimenticato che anticipò John Stuart Mill nella crociata per l’emancipazione femminile, nell’affermazione dell’uguaglianza di genere.

L’Italia dell’epoca dei padri costituenti era un’Italia povera, ma orgogliosa delle sue radici; era un’Italia che si sentiva una, indivisibile e solidale, che si commuoveva leggendo “Cuore” di De Amicis, che sentiva la Costituzione come la più bella del mondo perché rendeva fruibili alla generalità dei cittadini gli istituti di democrazia liberale, che non viveva di attese miracolistiche ma pensava al futuro con speranza perché voleva crescere; era un’Italia che si rimboccava le maniche avendo nella mente e nel cuore l’apologo di Menenio Agrippa. Era un’Italia seria, partecipe della vita politica, che esprimeva un consenso ai programmi di ciascun partito e non alla capacità di comunicazione e di imbonimento dei loro leaders, che non sottostimava il bene comune pur perseguendo gli interessi particolari, che risolveva i dissidi politici attraverso il dialogo e l’ascolto e non li esasperava affidandosi alla gazzarra ed agli insulti gratuiti, che aveva fiducia nella classe politica e nel suo spirito di servizio, che conosceva di persona i suoi rappresentanti nelle istituzioni tanto locali quanto nazionali, che esprimeva nel voto preferenziale giudizi di valore liberi e non condizionati.

Quest’Italia, tanto distante da quella odierna, proprio in ragione del suo spirito mutualistico e solidale fu protagonista di una stagione di straordinari successi in campo economico e sociale, e riscosse un apprezzamento formale con l’attribuzione alla lira dell’Oscar della moneta da parte del Financial Times sia nel 1959 che nel 1964. Venute successivamente a mano a mano a mancare le generazioni più anziane, il progressivo affievolimento dello spirito solidaristico, la sempre maggiore propensione ad una più esasperata conflittualità economica e sociale, la più accentuata prevalenza nelle scelte individuali dell’homo oeconomicus attento alla sfera privata piuttosto che dell’homo politicus attento alla sfera pubblica, la scarsa e talora inesistente considerazione della necessaria interrelazione tra bene comune e interesse privato, il comportamento sempre più autoreferenziale della classe politica, la prevalente attenzione dei governanti ad interessi immediati e di parte hanno fortemente svuotato la Costituzione vivente della sua connotazione democratica e solidale e dell’associata intrinseca forza propulsiva presenti in quella scritta, destrutturando la stessa architettura costituzionale ed il rapporto fiduciario tra cittadini ed istituzioni.

La forza morale dei principi ispiratori, nonostante se ne avverta il progressivo depotenziamento nella concreta azione di governo, riesce tuttavia ancora a far percepire nel Paese la nostra Costituzione come la più bella del mondo. Non si assume tuttavia, come pur si dovrebbe, che tanto è potuto accadere a causa dello scadimento dello spirito pubblico e del disinteresse per la funzione politica di una parte preponderante della società civile in quanto, costituendo quei principi un vincolo per le elites dominanti ed essendo la loro attuazione fortemente interconnessa con la struttura di potere, né essi nè la configurazione istituzionale che si è venuta modellando sono stati oggetto di sufficiente attenzione sociale. Resta quindi ovvio che, se a tale disattenzione è riconducibile lo sviamento attuativo della Costituzione scritta, a questo possa porre rimedio un comportamento sociale attivo di segno opposto che fermi e corregga tale deriva.

Quando, a circa vent’anni dalla sua promulgazione, ebbi ad esporre le mie riflessioni sull’argomento, oggetto della mia attenzione fu, nello spirito del tempo, l’attuazione del dettato costituzionale da parte del sistema politico; oggi, in concomitanza con il suo 75° anniversario, si deve rilevare che la Costituzione vivente ha stravolto il quadro di riferimento delineato dai Costituenti, e che i valori costituzionali permangono attuali e vanno ripristinati nella convivenza sociale e nell’assetto istituzionale. Trattasi di un’opera non facile, che urta interessi egoistici e corporativi che poco hanno a che fare con l’equità ed il bene comune e situazioni di potere oligarchico consolidatesi nel tempo, soprattutto a seguito dell’avvento della cd. Seconda repubblica; è tuttavia un’opera degna di essere intrapresa, la sola che possa propiziare la ricostruzione di un’etica civile su cui poggiare la prospettiva di una solida ripresa del nostro Paese, e con essa la speranza di voi giovani per un avvenire che possa soddisfare legittime attese.

Voi qui siete tutti giovani, tutti studenti, tutti – spero – portatori di belle speranze. I nostri antenati ci hanno insegnato e tramandato, anche con l’esempio, che le belle speranze non si realizzano da sole e che per assumere concretezza richiedono studio, disciplina, impegno, senso di responsabilità. Il nostro Paese versa oggi in una situazione difficile per il cui superamento è essenziale l’impegno a far vostri la volontà di partecipazione democratica, la consapevolezza della dignità di ogni lavoro, l’amore della libertà, lo spirito di solidarietà, il senso di appartenenza, il desiderio di giustizia sociale che si ritrovano nei principi fondamentali della Costituzione. Non siate quindi parte di un mondo irreale ed indifferenti alla politica, perché la politica comunque ci vive anche se noi ci rifiutiamo di viverla; non prenderne atto equivale a porsi nella condizione di quell’emigrante che, avvisato da un altro emigrante che il piroscafo su cui viaggiavano stava affondando, gli disse che la cosa non lo riguardava perché il piroscafo non era suo. E così affondò con il piroscafo.

* Relazione tenuta il 18 novembre 2022, nell’Auditorium SS. Rosario al Capo di Sorrento, nel corso della VI edizione di BookSophia, Festival della Classicità organizzato dall’Archeoclub di Massa Lubrense

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