Il Contagocce*

Il Contagocce*

di Guido Di Massimo

A cosa serve un contagocce se quando dovrebbe servire, cioè quando piove, non serve a nulla? Perché lo vendono con il nome di contagocce quando in realtà non conta nulla? Un contapassi sì che conta: conta i passi e il suo nome non è usurpato. È giustificato e guadagnato. Ma per il contagocce no. Lui il contagocce lo aveva comprato per i giorni di pioggia ma ora non sapeva che farsene.

          Erano queste le considerazioni che lo portarono a rivolgersi a un avvocato che, considerando l’osservazione non infondata, iniziò una causa contro la ditta che vendeva contagocce che in realtà non contavano nulla. Era palese il reato di frode in commercio e, ovviamente, di pubblicità ingannevole. Nella semplice pubblicità ingannevole di solito ci si limita ad esagerare caratteristiche e qualità falsando e distorcendo. In questo caso l’inganno era assoluto: il cosiddetto contagocce non contava nessuna goccia. Ma il nome del prodotto induceva in errore spingendo all’acquisto di un prodotto la cui inutilità contraddiceva il nome e il fine dell’acquisto. La frode in commercio era lampante.

          In tribunale il giudice incaricato del giudizio decise di chiedere il parere di un perito giudiziario che con dichiarazione giurata avrebbe dovuto dire se il contagocce contava o no le gocce. Il perito fece una dettagliata relazione dove con la descrizione di prove inoppugnabili dimostrò che il contagocce non contava gocce. Aggiungeva però che con la giusta pressione delle dita sull’impugnatura si era in grado di far cadere gocce che potevano essere contate da chiunque le osservasse gocciolare. 

          Dopo 13 anni di dibattiti una sentenza condannò la ditta fabbricante al risarcimento dei danni imponendole inoltre di cambiare nome al prodotto che da allora, per ordine del giudice, avrebbe dovuto essere chiamato “gocciolatoio manuale per il conteggio mentale o orale delle gocce gocciate”. 

          Ma la ditta produttrice ricorse in appello sostenendo che il nome “contagocce” era la semplice contrazione delle parole “gocciolatoio manuale per contare le gocce gocciate”, che “contagocce” era in pratica un soprannome entrato nell’uso da tempo immemorabile e che il nome d’uso e la consuetudine prevalevano sull’interpretazione letterale delle parole. Aggiungeva che non c’era nessun obbligo a usare un nome che indicasse esattamente l’uso dell’oggetto venduto e che in ogni caso non si trattava di pubblicità ingannevole. E adduceva esempi vari: al nome Guido poteva benissimo corrispondere una persona senza patente di guida, e non per questo la persona che portava quel nome poteva essere accusata di pubblicità ingannevole; una signora poteva chiamarsi Gaia o Allegra anche se musona, e un salice poteva chiamarsi “piangente” anche se in vita sua non aveva mai versato una lacrima. E anche in questi casi non si poteva parlare di pubblicità ingannevole.

          Anche le ragioni del ricorso non furono considerate infondate e iniziò il processo d’appello.

Il processo è tuttora in corso ed è un susseguirsi di perizie e riferimenti alla giurisprudenza nazionale e comparata. Un nugolo di avvocati assiste le parti e un processo parallelo svolge la stampa. Non si sa quando se ne uscirà fuori e non si esclude un futuro ricorso in Cassazione, ma l’importante è arrivare a un giudizio serio, motivato e inattaccabile.

La Giustizia ha i suoi tempi, come le gocce: è solo col tempo che “gutta cavat lapidem”.

* tratto dal libro “Il cane col papillon” di Guido Di Massimo – Robin edizioni

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