
LA CIVILTÀ DI UN PAESE SI MISURA (ANCHE) DALLA CONDIZIONE CARCERARIA
di Giuseppe Gullo
Leonardo Sciascia, la fondazione Enzo Tortora e il Partito Radicale hanno proposto numerose volte, in modo provocatorio, di introdurre l’obbligo per i magistrati di trascorrere 15 giorni in carcere prima di assumere le funzioni. Com’è evidente, il significato di una simile iniziativa è quello di fare intendere concretamente ai magistrati cosa significa richiedere e disporre un provvedimento di custodia cautelare in carcere o negare una misura alternativa alla detenzione.
Periodicamente, quando la tragedia dei suicidi nelle case di pena raggiunge cifre paurose o quando il sovraffollamento, male endemico del nostro sistema, supera il livello di guardia creando i presupposti per disordini e violenze, si torna a parlare del problema per dimenticarsene dopo qualche giorno. La verità è che negli ultimi decenni non vi è stata un’adeguata attenzione sui due versanti sui quali è necessario intervenire: la costruzione di nuove carceri e una seria e mirata scelta in materia di pene alternative al carcere.
Come stanno le cose? Al 30 maggio 2025, c’erano 62.722 detenuti in Italia. Questo dato mostra una situazione di sovraffollamento, dato che la capienza regolamentare è di 51.285 posti, con un numero di posti regolarmente disponibili addirittura inferiore. Già il fatto che ci siano 11500 detenuti in più rispetto al massimo possibile è una gravissima violazione di tutte le norme e della stessa Costituzione. Ma non vi è solo questo. Nei gironi scorsi a Roma è crollato un soffitto a Regina Coeli, costringendo d’urgenza al trasferimento a Rebibbia di 300 persone. Quest’ultimo penitenziario non era in condizione di accogliere altri detenuti, per cui è stato necessario trasformare in celle alcuni locali destinati ad attività ricreative e ricavare ulteriori posti in quelle già piene.
Quando in tutti questi mesi abbiamo ripetuto che il “piano carceri” e gli altri palliativi introdotti dal Ministro Nordio non avrebbero risolto il sovraffollamento, ma l’avrebbero aggravato, eravamo facili profeti di quello che sarebbe successo e che, presumibilmente, succederà ancora. Di nuovi posti in carcere non si vede l’ombra, la magistratura di sorveglianza continua a non far accedere le persone detenute alle pene alternative, e la percentuale del sovraffollamento aumenta inesorabilmente di settimana in settimana, proprio mentre un’altra mazzata si è abbattuta sul sistema penitenziario italiano, in particolare su quello romano: il crollo di una porzione del tetto, vecchio e marcio, di Regina Coeli.
Il sottosegretario Delmastro si è affrettato a minimizzare, ma la realtà è ben diversa: dal momento del crollo, tutti i nuovi arrestati di Roma (circa 40–50 persone al giorno), invece di finire in prima istanza a Regina Coeli, saranno sistematicamente dirottati a Rebibbia. Risultato: anche Rebibbia sta andando oltre ogni limite. Una buona parte delle salette fino ad ora dedicate alla socialità nei vari reparti sono state frettolosamente trasformate in celle da riempire fino a 10–12 persone e anche di più, modello Poggioreale. Dove, dalla nascita di Rebibbia ad oggi, si è sempre giocato a carte o a ping-pong, adesso ci sono le brande imbullonate per terra.
Anche qui, al Reparto G8, arriva di tutto: da persone immigrate, che presto si organizzeranno in clan etnici pronti a scontrarsi tra loro e con gli italiani (non è intolleranza, è la realtà), a persone malate e tossicodipendenti che non dovrebbero neppure stare in cella. Mentre i lavoranti, le persone con più lunga detenzione – quelle che stabilizzano i reparti e li rendono governabili – sono state tutte portate via e raggruppate in bracci a parte. Alcuni dei nuovi venuti si sono trovati senza materassi e senza cuscini, e hanno dovuto dormire una o più notti sul nudo ferro della branda. D’altra parte, la dotazione d’organico del personale di sorveglianza è rimasta la stessa, e gli agenti della Penitenziaria fanno quello che possono. È solo l’inizio: ogni settimana andrà peggio e anche l’“isola felice” del G8 sarà presto livellata all’invivibilità degli altri reparti.
Di questi processi faticosissimi di trasformazione e redistribuzione delle persone detenute, non ha fatto le spese solo la vita quotidiana dei reparti, ma anche la speranza. Quando qualche personalità vuole visitare Rebibbia (l’ultimo, venerdì scorso, è stato Roberto Vannacci), viene sempre condotta nel piccolo “circuito modello” del G8, dove ci sono la falegnameria, il call center del Bambino Gesù, la sala teatro e quella per la musica. …”.
Chi scrive è Gianni Alemanno detenuto a Rebibbia da molti mesi, in passato Ministro e Sindaco di Roma, parlamentare per circa vent’anni, il quale prima di questa esperienza traumatica che sta vivendo, si era comportato come quasi tutti gli esponenti politici ritenendo il problema carcerario secondario e tutto sommato di scarso impatto sociale. Oggi vive sulla sua pelle un’esperienza drammatica e chiede dignità per sé e per i suoi compagni. I suicidi in carcere negli ultimi tre anni sono aumentati notevolmente “Nel periodo 2021-2024 in carcere si sono verificati 294 suicidi con una media di circa 73,5 suicidi/anno con un minimo di 59 (2021) ed un massimo di 84 nel 2022”. Numeri eloquenti che sono la rappresentazione di un grande malessere che colpisce soprattutto i soggetti più fragili e non in condizione di affrontare l’impatto terribile della vita carceraria.
Un paese civile affronta questo problema sia aumentando e migliorando le strutture destinate all’espiazione della pena sia ampliando le misure alternative al carcere con tutte le possibili tutele che provengono dall’uso di strumenti di controllo legati allo sviluppo della tecnologia.
Resta poi sullo sfondo, in attesa che si realizzino i programmi in atto completamente disattesi, la questione dell’alleggerimento della popolazione carceraria con un provvedimento di clemenza e cioè un’amnistia. L’argomento è delicato e tocca nervi scoperti della società civile sempre più colpita dalla violenza, giovanile e non, e dall’uso crescente di alcol e droghe. Occorre tuttavia chiedersi se in presenza di fatti accertati come quelli che si verificano giornalmente a Regina Coeli, a Poggioreale e in tanti istituti di pena non sia il male minore quello di rimettere in libertà un certo numero di detenuti quanto meno per ripristinare il rapporto tra ricettività e popolazione carceraria, piuttosto che violare la Costituzione e i diritti fondamentali delle persone che sono private della libertà personale.
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