FANTASMI CHE RITORNANO

FANTASMI CHE RITORNANO

di Giuseppe Gullo

È abbastanza scontato il fatto che su alcuni tragici eventi che hanno colpito lo Stato repubblicano, e la cui memoria è sempre viva, la verità non si conoscerà mai in modo sufficientemente sicuro. Uno di questi è la caduta dell’aereo Itavia nel mare intorno a Ustica che causò la morte di 81 persone.  L’incidente avvenne il 27 giugno 1980 e, secondo la versione più accreditata, fu causato da un aereo militare non identificato durante una battaglia nella quale erano coinvolti anche aerei libici. La tesi secondo la quale il vero bersaglio dell’attacco fosse il colonnello Gheddafi, che si sarebbe dovuto trovare su uno degli aerei coinvolti, venne ritenuta attendibile. Nel 2007 fu il Presidente Cossiga, Presidente del Consiglio all’epoca del disastro, ad affermare che i servizi segreti lo avevano informato che a fare deflagrare il DC 9 italiano era stato un aereo francese che aveva lanciato un missile destinato a colpire un aereo libico. La conferma  veniva da una fonte talmente autorevole che tutti ritennero che la verità, per quanto possibile e consentito in un’operazione top secret, fosse acquisita.
Le inchieste giudiziarie che si sono occupate della vicenda hanno nella sostanza accolto la tesi del conflitto aereo riconoscendo agli eredi delle vittime il diritto al risarcimento del danno a carico del Governo italiano. Fino a questo punto tutto sembrava chiaro, nei limiti in cui può esserlo un caso nel quale era protagonista una potenza nucleare che faceva, allora e ora, parte della NATO e che era dichiaratamente ostile al regime libico e al suo capo contro il quale, con l’appoggio degli USA, anni dopo lanciò un’ offensiva militare che si concluse con la morte di Gheddafi e la fine del regime. La “novità” sta nel fatto che una tale conferma venga oggi da un uomo politico, oggi ottantaseienne, che nel tempo ha ricoperto, con la sola eccezione della Presidenza della Repubblica, tutti gli incarichi di maggiore responsabilità nelle Istituzioni repubblicane,  e che alla notizia si accompagni la richiesta al Presidente Macron di liberare il dossier dal segreto di Stato fornendo tutti i particolari custoditi negli archivi d’oltralpe. Nell’occasione ha anche aggiunto che sarebbe stato ad avvisare Gheddafi del complotto che puntava a eliminarlo, certamente forse confondendosi con un avvertimento analogo di Craxi a Gheddafi di sei anni dopo.
Si resta perplessi considerando quale possa essere la ragione di una simile sortita da parte del Presidente Amato. La caratura del personaggio porta a escludere che si tratti di una voce “dal sen fuggita”. L’ex Premier ha parlato a ragion veduta, consapevole che una tale dichiarazione avrebbe causato reazioni. La Francia ha smentito dicendo che aveva messo a disposizione degli inquirenti tutto ciò che era a sua conoscenza. Il figlio del leader socialista ha confermato che il padre avvisò il capo libico ma diversi anni dopo. Resta senza risposta la domanda sul perché 43 anni dopo una tale tragedia un uomo pubblico navigatissimo abbia deciso di fare simili dichiarazioni, coinvolgendo Francia, Libia e Usa, oltre l’Italia, in una trama che mirava a uccidere un capo di Stato e che ha provocato invece la morte 81 persone. Come mai un ex Primo ministro, Craxi, costretto a vivere per molti anni in un Paese nord africano, sicuramente a conoscenza di molti segreti sul caso Ustica, non è mai intervenuto sulla questione né ha lasciato un memoriale che fornisse elementi di chiarezza su quanto avvenuto? Forse la strada verso la verità non è conclusa e l’intervista di Amato potrebbe essere solo un passaggio.
Del tutto diversa da ogni punto di vista, ma altrettanto degna di riflessione, è l’intervista di Cervetti in occasione del suo novantesimo compleanno. Egli è stato fino al suo scioglimento l’uomo di Mosca nel PCI. Lo è stato concretamente non in senso figurato. Ha vissuto per anni nella capitale dell’impero sovietico dove ha studiato e si è laureato in economia, lì si è sposato ed è nato l’unico figlio, e ha svolto fino al rientro in Italia il ruolo di rappresentante del PCI presso il Partito comunista dell’URSS. Tornato a Milano, ha percorso l’intero cursus honorum, prima come Segretario della Federazione di Milano, poi in Lombardia e infine a Roma con l’incarico di responsabile dell’organizzazione che nel Pci del centralismo democratico significava il controllo dell’apparato e un conseguente enorme potere secondo solo a quello del Segretario. Parallelamente ha ricoperto le cariche di Consigliere comunale di Milano, Consigliere Regionale, Deputato Europeo e Parlamentare italiano. Fino a quando vi è stato il PCI, Cervetti è stato custode dell’ortodossia e ha affiancato Berlinguer, passo dopo passo, nel lungo e travagliato processo di distacco dal PCUS. Superato in buona salute il traguardo dei novant’anni, rilascia un’intervista che è un capolavoro di prudenza. Non da’ giudizi su nessuno, non si pronuncia sul nuovo corso del PD e perfino sul Governo di destra evita toni aspri. Su un fatto concentra la sua attenzione. Riferisce di un incontro riservatissimo alla Camera tra Berlinguer, Chiaromonte e lui stesso nel quale si stabilì di interrompere il flusso dei finanziamenti che il Pci riceveva da Mosca. L’incontro sarebbe avvenuto nel 1975 e da quel momento non sarebbero più arrivati soldi da oltre cortina.
Il vecchio dirigente comunista, ultimo sopravvissuto insieme a Napolitano, della generazione post togliattiana e berlingueriana, sente il bisogno di rivelare a circa cinquant’anni di distanza, un episodio che conferma due fatti arcinoti e cioè che il PCI veniva finanziato stabilmente dal PCUS, non sappiamo in quale misura, e che, da un certo momento in poi ciò non avvenne più. C’è più di una ragione per dubitare della versione di Cervetti. Non della riunione segretissima a tre, né del fatto che “l’oro di Mosca”, così definito dall’intervistato, non sia più arrivato, quanto sulla motivazione. Cervetti dice che la decisione fu presa “per avviare il partito verso l’Europa“.
A ben pensarci, la ragione potrebbe essere individuata molto più semplicemente nel fatto che il PCUS, ben consapevole dello strappo che il PCI si stava preparando a fare e del quale vi erano testimonianze precise sia pubbliche, articoli e dichiarazioni, che riservate attraverso i canali di informazione che erano sempre aperti tra Mosca e le botteghe oscure, non aveva più alcun interesse a finanziare, come aveva fatto per decenni, un partito che rinnegava i valori fondanti della rivoluzione d’ottobre e di tutto ciò che ne era derivato. Pochi mesi dopo la riunione di cui parla Cervetti, l’intervento di Berlinguer al XXV congresso del PCUS sancirà il distacco del PCI.
Il fatto è che uno degli ultimi sopravvissuti tra i massimi dirigenti di quello che fu il più grande partito comunista d’occidente vive come quel militare giapponese disperso nella giungla che pensava che la guerra contro gli alleati non fosse finita e continuava a nascondere a sé stesso la verità.

Fonte Foto: Wikimedia CommonsMnp-comCC BY-SA 3.0

 

Commenta questo articolo

Wordpress (0)
Disqus ( )