I porti italiani prigionieri del diallele
di Giovanni Mollica, Responsabile per il Nuovo Meridionalismo
I greci lo chiamarono “διάλληλος”, in italiano “diallele”, cioè “ragionamento circolare”, in cui la premessa condiziona la conseguenza, e questa condiziona quella. E’ un esempio di argomentazione che molti esponenti politici utilizzano quando affrontano la questione meridionale e affermano che le grandi navi non attraccano nei porti del Sud perché sono inadatti a ospitarle, e poi che non vale la pena rendere competitivi i porti del Sud perché le grandi navi non vi attraccano.
Ma non è l’unico finalizzato a negare un vantaggio geografico che solo uno sciocco può non vedere. Ce n’è un secondo – ancora più rozzo – che accomuna quasi tutte le forze politiche italiane: “non c’è nessuna ragione per cui una nave che esce dal Canale di Suez debba utilizzare i porti più meridionali d’Italia”. Un teorema con un corollario: pensare che la Sicilia possa diventare la piattaforma logistica del Mediterraneo è folle; il futuro della portualità italiana è legato a Genova e Trieste.
Che questa strategia – opposta rispetto a quella adottata dagli altri Paesi mediterranei – sia un fallimento, non lo dice la politica ma i fatti: l’Italia continua a perdere posizioni nel mediterraneo.
Valencia, Pireo, Ambarli e Algeciras, situati più a sud di Genova e Trieste – ma più a nord di Augusta, Taranto e Gioia Tauro -, crescono rapidamente e movimentano quantità di merci molto superiore a tutti i porti italiani. Viene da chiedersi perché le grandi navi debbano preferire gli scali spagnoli, turchi e greci e scartare quelli siciliani, calabresi e pugliesi, più vicini ai grandi flussi mercantili. La risposta è banale: questi ultimi non sono in grado di effettuare i servizi logistici che servono agli operatori del settore.
Essere prigionieri del diallele vuol dire impedire al Paese di crescere.
Una strategia trasportistica sbagliata che ha contribuito a rendere l’ex Bel Paese un frequentatore abusivo dei vari G7 e G8: è dodicesimo o tredicesimo e in rapida discesa. Nel prossimo decennio, scenderà oltre il ventesimo posto.
Sono lontani i tempi nei quali, tra gli esperti di trasporti, circolava la convinzione che “la logistica può rappresentare per l’Italia – e il Mezzogiorno in particolare – ciò che è stato il petrolio per i Paesi arabi”. Mentre Premier e Ministri dei trasporti, sordi e ciechi, affondavano il Paese assecondando le richieste delle lobby finanziarie e portuali settentrionali.
Eppure, incredibilmente, il treno che sembrava perso per sempre potrebbe passare di nuovo. Pensiamo a quello che sarà il Mediterraneo tra 20-30 anni, il tempo necessario per creare un sistema infrastrutturale moderno al di sotto di Salerno. L’Africa avrà tre miliardi di potenziali consumatori e la sola Nigeria potrebbe avere lo stesso numero di abitanti dell’intera Europa. Qualcuno pensa che i porti più adatti per gli scambi tra una giovane Africa in crescita tumultuosa e una vecchia Europa in agiata decadenza siano Genova e Trieste? Non sarebbe più competitiva una strategia che punti a spostarsi a 150 km da Tunisi e sfrutti i solidi legami socio-culturali esistenti tra la Sicilia e i suoi dirimpettai?
Ancora una volta, rischiamo di farci trovare impreparati (crisi energetica e dell’agroalimentare insegna) davanti ad avvenimenti che erano facilmente prevedibili qualche decennio prima.
Per quanto tempo ancora la grande industria mitteleuropea utilizzerà come primo subfornitore la PMI settentrionale? Settore già a rischio crisi per l’avvento delle auto elettriche, povere di componenti, e per la crescita di competitor come Polonia, Ungheria, Cekia, Danimarca, Romania, Estonia, Svezia e Lituania, dove è molto più facile e redditizio “fare impresa”.
Ciononostante, il modello di sviluppo della portualità e della logistica continua a dipendere da Genova e Trieste, e concentra nell’arco ligure e nell’Altro Adriatico le risorse pubbliche. Meglio un uovo oggi che un pollaio domani.
Come se non esistesse Marsiglia, che non è schiacciata dagli Appennini come Genova e ha alle spalle la forza economica e le relazioni internazionali e della Francia. O non fosse evidente che Rijeka (Fiume) e Koper (Capodistria) offrono opportunità maggiori di Trieste e Venezia anche perché vicini a Paesi a crescita doppia di quella italiana.
C’è di più: se i Governi italiani non credono alle possibilità di sviluppo della portualità e della logistica dell’estremo Sud (.. non c’è nessuna ragione per cui una nave che esce dal Canale di Suez …), per quale motivo si destinano oltre 30 mld per AV/AC farlocche come PA-CT-ME e SA-CS-RC? Così da collegare porti che – nella concezione della Logistica fin qui adottata – non hanno futuro. Basta percorrere le autostrade siciliane e calabresi per constatare che si incontrano poche automobili e pochissimi mezzi commerciali. A conferma che non è il collegamento che manca, bensì le persone e le merci che lo vogliano utilizzare. Siamo sicuri che creare un’alternativa “veloce” (?) su ferro aumenti il numero di utenti e moltiplichi la quantità di merci?
La risposta è scontata ma non deve confermare la strategia perdente di marginalizzare il Sud, bensì avviare quella che innesca un vero sviluppo sostenibile. Coma accade in tutto il mondo.
Forse che gli antichi greci, inventandosi il diallele, avevano addirittura previsto la scarsa qualità dei Ministri delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili, come oggi si chiama quello che un tempo era più semplicemente il nostro Ministero del Trasporti?