LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA

LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA

di Guido Di Massimo

Il sistema giudiziario non funzionava: troppo tempo per i giudizi, troppi errori giudiziari, troppi giudici giudicavano in modo personale. Gli appelli arrivavano sempre a conclusioni opposte a quelle dei giudizi precedenti e di regola la Cassazione imponeva di ricominciare tutto da capo. La giustizia era diventata una specie di gioco del lotto. Era inaffidabile e costava cara, molto cara. L’esercito dei giudici, dei p.m, dei cancellieri, degli addetti alla sicurezza di giudici e cancellieri, i locali e il loro mantenimento costavano allo Stato un occhio della testa.
Occorreva una riforma.
E visto che la giustizia era popolarmente considerata una specie di gioco del lotto, proprio in base a questo comune sentire si pensò di amministrarla avvicinandosi a questo gioco.
In quattro e quattr’otto fu emanata una legge con la quale si stabiliva che la risoluzione di qualunque contesa sarebbe stata risolta con il sistema del “testa o croce”.
Il giudice incaricato di risolvere la controversia avrebbe lanciato in aria una moneta. Se ricadendo a terra la moneta mostrava la “croce” vinceva il ricorrente e se mostrava la “testa” avrebbe vinto la parte avversa. La moneta sarebbe stata messa a disposizione dal Ministero della Giustizia e dopo il giudizio sarebbe stata intascata dal giudice come paga per il suo lavoro.
Questa idea sembrò geniale perché avrebbe  reso estremamente celeri i processi: i giudici per guadagnare il più possibile avrebbero “giudicato” il più velocemente possibile e sarebbe cessata la sgradevole situazione in cui versavano normalmente i tribunali con arretrati di anni e decenni. I cancellieri potevano essere pagati dal giudice in base ad accordi personali, oppure il giudice poteva verbalizzare da solo risparmiando i soldi del cancelliere che di solito faceva solo perdere tempo; e con il sistema della moneta il tempo era proprio denaro sonante.
Con questo sistema scomparivano appelli e contrappelli, non più necessari perché il giudizio della moneta era oggettivo e non passibile di ripensamenti, come avveniva quando a giudicare erano i giudici, ognuno con i suoi pregiudizi e le sue fisime.
La novità fu accolta con entusiasmo ma durò poco. Il popolo ne era felice ma i giudici no: troppo lavoro. Dicevano che con il sistema della moneta loro lavoravano “a cottimo” e che qualche giudice, per guadagnare il più possibile aveva fatto tanti di quei lanci di moneta che per lo stress si era preso un infarto. E poi loro non erano mica operai o raccoglitori di pomodori: lavorare a cottimo per loro non era dignitoso; doveva essere pagata la funzione e non il lavoro.
Anche i cancellieri rumoreggiavano: non accettavano il nuovo modo di lavorare perché i giudici li pagavano poco o le monete se le tenevano tutte loro. E anche i cancellieri dovevano essere dignitosamente pagati per la funzione e non per il lavoro.
Il Ministero della Giustizia tentò di delegare il lancio della moneta a privati cittadini scelti di comune accordo dalle parti in causa ma i magistrati rivendicavano il monopolio dell’amministrazione della giustizia. I sindacati dei magistrati invasero le piazza e i magistrati passati alla politica bloccarono il Parlamento. Piazza e Parlamento si mossero “a tenaglia” e non ci fu nulla da fare. E tutto tornò come prima.
Ad evitare futuri ripensamenti, su istigazione dei magistrati il Parlamento vietò ovunque e per sempre il “testa o croce” che scoprì essere un gioco d’azzardo pericoloso e ingiusto.

  • tratto dall’ultima opera di Guido Di Massimo, “Il cane col papillon” (edizioni Robin), per gentile concessione dell’Autore

 

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