AUTONOMIA DIFFERENZIATA E MERIDIONALISMO PELOSO

AUTONOMIA DIFFERENZIATA E MERIDIONALISMO PELOSO

di Giuseppe Buttà

Pina Picierno – attuale vicepresidente del Parlamento europeo e candidata, in tandem con Stefano Bonaccini, alla segreteria del PD – afferma che l’autonomia differenziata proposta dal leghista Roberto Calderoli, attuale ministro degli Affari regionali, non fa che «condannare il Mezzogiorno a un isolamento ancora più pronunciato».
Il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, ha dichiarato guerra: «La decisione del ministro Calderoli di trasmettere il testo del disegno di legge sulla cosiddetta autonomia differenziata alla presidenza del Consiglio è un vero e proprio atto ostile».
Le cause della guerra sono abbastanza “futili e pretestuose“, come quelle della guerra di Putin. Emiliano rimprovera al Ministro di aver trasmesso al governo «un testo del quale, al momento, non si conosce il contenuto. Un testo che non è stato oggetto di confronto nella Conferenza Stato Regioni … È un atteggiamento istituzionale inaccettabile», contro il quale egli minaccia l’”avanzata compatta“ del PD.
In realtà, il testo di questo ddl l’abbiamo tutti davanti; se Emiliano non lo conosce è colpa sua e forse era distratto quando fu presentato alle Regioni alla fine di novembre. Ed è pure distratto o non ricorda, o non sa, che un tale disegno di legge è frutto della riforma degli art. 116 e 117 della Costituzione fatta dalla sinistra quando, sotto la guida illuminata di D’Alema, inseguiva la sua costola che gli era sfuggita: la Lega Nord.
Infatti, lo stesso concetto di autonomia differenziata non è nato dalla testa di Calderoli; è scritto nero su bianco nell’art. 116, modificato nel 2001: «Il Friuli Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige/Südtirol e la Valle d’Aosta/Vallee d’Aoste dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali … Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata».
Il raptus da cui nacque questa riforma, aveva dato vita, nell’art. 117, pure alla formula ambigua della ‘legislazione concorrente’ che, affidando alla potestà legislativa sia dello Stato che delle Regioni un numero di materie molto più ampio di quelle attribuite, per esempio, alla legislazione esclusiva delle Regione a Statuto Speciale come la Sicilia, ha sollevato innumerevoli conflitti di attribuzione. Si tratta di un numero enorme di materie tra le quali anche i “rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni nonché il commercio con l’estero” che, tradizionalmente e necessariamente, sono riservate al governo centrale anche negli stati federali: sicché abbiamo potuto vedere molte Regioni aprire le loro ‘ambasciate’ in tutte le parti del mondo di loro gradimento.
Si potrebbe dire, con Mao, che «la confusione è grande sotto il cielo, quindi la situazione è eccellente». È eccellente per l’evidente motivo che è proprio la confusione a permettere agli autori di quella riforma di sfuggire alle proprie responsabilità e di recitare quella parte in commedia che oggi più gli conviene. Coloro che oggi si strappano le vesti denunciando il pericolo di una ‘ulteriore e più grave spaccatura’ tra le regioni più ricche e avanzate e quelle più povere e arretrate, sono gli stessi che hanno posto le premesse di una tale eventualità.
Franz Neumann, uno dei maggiori teorici politici contemporanei, ha dimostrato, in un suo saggio famoso, la futilità di ogni discussione sui meriti del federalismo e sull’autonomismo considerati in astratto. Per Neumann non esistono valori inerenti al federalismo in sé, e non si può difendere questa forma di governo dicendo che lo stato unitario tenda inevitabilmente verso la repressione politica: vi sono, infatti, stati federali nei quali la libertà e la democrazia sono appena un pallido simulacro e stati unitari democratici e liberi. Neumann ha certamente ragione nell’avanzare questa riserva. Tuttavia si può ammettere che, in generale, il centralismo può favorire il sacrificio degli interessi più deboli a vantaggio dei più forti, che non sono necessariamente i più generali, e che il federalismo/autonomismo rappresenta una forma di distribuzione contrattuale del potere non gerarchica ma paritaria e poliarchica, atta a introdurre meccanismi di salvaguardia e garanzia delle minoranze e di tutti gli interessi, specie se visti nel loro radicamento territoriale.
É anche da ricordare che – con l’autonomia fiscale e finanziaria dei diversi livelli di governo – una delle modalità non secondarie della ”divisione federale del lavoro” è quella della applicazione del principio di sussidiarietà per cui al governo centrale va attribuita la gestione soltanto di quei ‘beni pubblici’ che non può essere affidata ai governi locali, ai quali vanno invece attribuite le politiche pubbliche territoriali. È questa divisione delle competenze a rendere il sistema delle autonomie conveniente anche dal punto di vista economico.
Giuseppe Capograssi, un pensatore che ha rivitalizzato la riflessione sulla società e lo Stato, diceva che l’autonomia è una forma necessaria alla democrazia per evitare quel paradosso che si ha quando il potenziamento dello Stato diviene così vasto che, da mezzo che era, «diviene fine e l’individuo da fine diviene mezzo… Lo Stato si arricchisce di funzioni ma rimane sempre debitore verso l’individuo…». Un debito che, per Capograssi, si può estinguere in un solo modo: con una “nuova democrazia diretta”, nascente non più dalla massa scomposta e disorganica, che si risolve nei singoli individui, ma dalla società organica e dalle autonomie che i singoli centri sociali e le forze sociali acquistano con la coscienza della pubblicità e giuridicità della propria funzione, dando così corpo e forza agli individui altrimenti mercé dei regimi di “propaganda e di massa”.
L’autonomia è dunque l’altra faccia della libertà perché lo Stato, come Capograssi propone nel Codice di Camaldoli, deve necessariamente mettersi in relazione con queste forze per il conseguimento dei suoi scopi, primo fra tutti quello della pace sociale.
Oggi la mobilitazione contro l’autonomia differenziata è dunque ai massimi livelli ma appare strumentale, finalizzata a colpire il governo piuttosto che ad argomentare seriamente criteri e principi solidi per definirla e stabilirla utilmente. La domanda di un’approfondita discussione di tali criteri e principi è più che fondata; la necessità che, insieme all’autonomia regionale si discuta e si decida anche dei modi e dei mezzi per rafforzare il governo dello Stato nella sua autorità e stabilità (a cominciare dal presidenzialismo) è più che evidente; ma sono assolutamente da respingere le posizioni di chi, in nome del riequilibrio, vuole affossare la riforma delle autonomie – che consiste nell’estensione ad altre regioni dell’autonomia di cui già godono le 5 regioni a statuto speciale in un quadro normativo che, rispetto alla formulazione attuale, disponga una più precisa distribuzione dei poteri, delle competenze e delle risorse in capo a governo centrale e ai governi regionali – solo per attaccare il governo con un meridionalismo ‘peloso’.
Si permettano due domande: forse l’opposizione teme l’autonomia perché teme di perdere potere? Il secolare centralismo italiano non è responsabile delle gravi disparità tra le regioni, tra Nord e Sud, tra isole e continente?
Ora, non c’è dubbio che l’autonomia territoriale rafforzi la democrazia e sarebbe una mistificazione negare che il centralismo ne sia invece una limitazione inaccettabile; è del resto impossibile negare che, nel caso italiano, sia stato proprio il centralismo a determinare il divario, spesso abissale, tra le varie parti del paese o che, comunque, esso non sia stato capace di eliminarlo: nessuno può sostenere che, se nelle regioni meridionali, infrastrutture come sanità, ferrovie, strade, scuola, etc., sono di qualità e quantità inferiori a quelle che si hanno nelle regioni del Nord e del Centro, sia colpa delle regioni. Nell’Italia repubblicana, fino al 1970, esistevano solo 5 regioni a statuto speciale, di cui due sole meridionali, alle quali si può certamente rimproverare di non aver saputo utilizzare al meglio la loro autonomia ma, altrettanto certamente, a esse deve essere anche concessa l’attenuante dei 150 anni di gestione centralistica dello Stato, in gran parte nelle mani di interessi confliggenti con quelli meridionali. È a questo centralismo che si può fare risalire l’origine del «mito dell’onnipotenza statale».
È contro questo mito che, nella costituzione repubblicana, venne concepito il regionalismo amministrativo e politico vincendo le resistenze degli iperstatalisti, spesso inclini al totalitarismo.
Perché l’autonomia sia efficace ed efficiente, le condizioni imprescindibili sono tre: 1. la divisione delle competenze tra Stato e Regioni; 2. la divisione equa delle risorse con imposizione fiscale autonoma da parte delle Regioni e dello Stato; 3. l’attribuzione allo Stato della funzione di coesione sociale e nazionale: a questo fine, non basta stabilire i LEP (livelli essenziali di prestazioni) né la reiterazione della distribuzione ‘storica’ dei fondi tra Nord e Sud bensì, almeno nella prima fase di implementazione dell’autonomia, occorrono anche investimenti speciali dello Stato per il riequilibrio delle strutture e delle infrastrutture a favore delle regioni deficitarie e in atto più arretrate, per migliorarne la capacità di sviluppo (Bisogna dire che, per un tal fine, l’occasione del PNRR è andata perduta quasi per intero).
In presenza di divari territoriali molto ampi, diviene infatti inevitabile l’intervento perequativo centrale dello Stato che può assumere varie forme anche in ragione della ripartizione delle competenze fiscali e di spesa tra le giurisdizioni. Come dice James Buchanan, i trasferimenti di risorse inter-area non rappresentano un sussidio alle aree più povere, una contribuzione caritatevole, bensì un diritto, una virtuosa solidarietà verticale e orizzontale: un vero e proprio ‘ponte’ tra le giurisdizioni.
Emiliano e i suoi compagni decidano se vogliono l’autonomia o no; se la vogliono non devono fare altro che chiedere queste tre cose.

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    Non sapevo che democrazia liberale nel concreto fosse una delle costole nascoste di Lega e FdI. Oggi noto, me ne faccio una ragione e mi cancello da tale dito . Se dovessi scegliere sceglierei l’originale è non la brutta copia ! 

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      Non mi pare che l’autore dell’articolo, il prof. Giuseppe Buttà, esprima posizioni che possano farsi risalire a Lega e FdI (che per altro, sul punto, sono alquanto distanti anche tra di loro); anzi, per quanto conosco il prof. Buttà, lo faccio assai distante da tali partiti, come per altro è, e vuole essere, anche Democrazia Liberale, che è composta da ostinati “LIBERALI E BASTA”, e che, senza pregiudizi e senza preferenze, valuta i partiti dell’attuale scenario politico per quel che fanno, piuttosto che per quel che dicono. A parte ciò, l’articolo è uno spunto di riflessione personale dell’autore che mira a suscitare tra i lettori del nostro sito una discussione sull’annosa questione dell’autonomia differenziata, introdotta purtroppo dal PD in Costituzione nel 2001 nel tentativo di inseguire la Lega sul suo terreno e a tal fine modificando profondamente il titolo V della Costituzione, una modifica, a parere di DL assolutamente sbagliata e con la quale dobbiamo ora fare i conti che, comunque vada, saranno in perdita per il centro-su del Paese. Così proseguendo, la disunità sostanziale dell’Italia sarebbe la prossima tappa. Ciò premesso, spero che rinunzi al proposito di non seguirci più. Cordialmente. Enzo Palumbo

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