DIMENTICARE TOGLIATTI, O FORSE NO!

DIMENTICARE TOGLIATTI, O FORSE NO!

di Giuseppe Buttà

Gli ozi estivi mi hanno portato a rileggere due libri su Togliatti che, quando vennero pubblicati ormai più di trenta anni fa, riaccesero la polemica intorno al leader del PCI dal 1927 al 1964, la cui influenza carismatica è tuttora viva tra i comunisti italiani.
Si tratta di due tesi diametralmente opposte. Quella di Luciano Canfora (Togliatti e i dilemmi della politica, Laterza, Bari, 1989), intende «prendere a bersaglio quanti, oggi, perseguono finalità politiche contingenti attraverso clamorose svolte storiografiche amplificate dai mass media», rispondendo a domande cruciali sul «vero volto» di Palmiro Togliatti, sull’adesione di questi e del PCI allo stalinismo come sistema, e, infine, sul carattere della politica perseguita dai comunisti italiani dopo la svolta di Salerno.
Ruggero Guarini, ex militante comunista, è invece l’autore di una satira dissacrante (Compagni, ancora uno sforzo: dimenticare Togliatti, Rizzoli, Milano, 1989) sotto forma di un «ultimo rapporto immaginario dall’aldilà». In esso Togliatti dà un impietoso contributo alla critica di se stesso e della mitologia comunista, della cui creazione egli fu ispiratore massimo, suggerendo un ultimo, poderoso sforzo di autocritica e di autoaggiornamento, per concludere con un incitamento al parricidio, cioè ad essere dimenticato: l’estremo e postumo atto d’amore di Togliatti per i suoi fedeli è l’eutanasia del partito.
Il livello dei due libri è, naturalmente, diverso: concettualmente serio – o, meglio, serioso – il primo, nel quale viene sfoderato tutto l’armamentario del falso storicismo; il secondo, che si legge in verità con un certo diletto, è invece beffardo e canzonatorio nel tono e nello stile, ma seriamente pensato e argomentato.
Canfora invoca per l’opera politica svolta da Togliatti quando, esule a Mosca, fu al vertice del Komintern, un criterio storicistico di giudizio per il quale tutto ciò che avvenne, avendo una propria interna razionalità e giustificazione, va storicamente inteso e giustificato.
Sarò l’ultimo a negare che una tale tesi abbia una salda e fondata parte di verità: come diceva Hegel, non si può portare Napoleone in pretura e lo storico non può che porsi di fronte al fatto se non per coglierlo nella sua essenza di fatto. Il suo compito storiografico è quello di registrarlo e non di giudicarlo, almeno nel senso comune del termine. Egli non può essere pro o contro, ma, interpretando i fatti, deve tuttavia darne una ragione e un senso.
Togliatti va certamente compreso nel clima e nella vicenda del suo tempo. Ma ciò non significa che questo clima e questa vicenda possano assorbire per intero la responsabilità che egli ebbe anche nel determinarli e caratterizzarli. Non è dunque «un pertinente criterio storicistico» quello cui fa ricorso Canfora bensì un criterio assolutorio e giustificatorio che intende spiegare – ma in realtà non spiega alcunché – il comportamento del Togliatti ‘stalinista’ con il clima e la vicenda del tempo e, contestualmente, pretende di dare alla storia la direzione e il «senso che la mente lucida e lungimirante di Togliatti» le avrebbero, a suo avviso, impresso. Delle due l’una: o Togliatti fu oggetto e vittima della storia o ne fu l’autore!
Togliatti stesso pretende per sé questo duplice ruolo: richiesto da Davide Lajolo di dire se egli non avrebbe potuto schierarsi a suo tempo contro i processi di Mosca, egli rispose: «se lo avessi fatto mi avrebbero ucciso. La storia dirà se era meglio morire o vivere per salvare il partito»!
Primum vivere, deinde …
C’è un vecchio adagio popolare la cui saggezza è universalmente riconosciuta da tutti: “meglio un asino vivo che un dottore morto”; e io, onestamente, non mi sento di negare a Togliatti ciò che non si negherebbe a un asino!
Aldo Natoli, nel saggio Da Stalin a Cavour citato da Canfora, esplicita con grande chiarezza il senso di questa tesi storicistica: «la grandezza di Togliatti deve vedersi nel suo concepire e fare la politica come storia nel suo farsi»; mentre Luigi Cortesi, anche lui citato da Canfora a sostegno della propria tesi, ci ricorda che se Togliatti fu stalinista, ciò si dovette al fatto che allora «lo stalinismo era la forma di un grande capitolo della lotta di classe in tutto il mondo… e Togliatti tra il 1927 e il 1929 capisce che ciò che vuole salvare (il partito rivoluzionario della classe operaia) lo può salvare soltanto schierandosi dalla parte vincente (Stalin)».
In effetti è proprio in relazione a ciò che dobbiamo dare risposta a una domanda essenziale, cioè se Togliatti abbia veramente dismesso il suo stalinismo o, invece, come sostiene il cattocomunista Franco Rodano – che fu un ascoltatissimo consigliere del ‘migliore’ – che Togliatti, giustamente e coerentemente, non abbandonò mai l’idea dell’essenzialità del momento staliniano nella costruzione del comunismo.
Se consideriamo la sua scelta di non essere un «eroe» –  come, invece, scelsero di esserlo molte delle vittime del terrore stalinianoda un punto di vista strettamente personale e individuale, non possiamo fargliene un torto. Tutti, o quasi tutti, teniamo famiglia e siamo quindi disposti a comprenderlo. Ma da qui a spacciare per necessità storica e per grandezza strategica la scelta togliattiana di saltare sul carro di Stalin e di rendersene complice, ne corre molto e questa distanza ‘etica’, ma anche ‘politica’ non siamo disposti a sopprimerla o a sottovalutarla.
Né siamo disposti a sottacere che un tale criterio storicistico è il più falso e, nello stesso tempo, il più usato da ogni sorta di «deterministi» e di «rivoluzionari» i quali, certi della direzione della storia e dei suoi «sbocchi necessari», se ne fanno ostetrici disposti a usare forcipi, tagli cesarei e ogni altro mezzo per anticipare il parto, “anche a costo di uccidere il bambino e la madre”. Ed è il più falso perché, con esso, si pretende, come faceva Togliatti, di essere a un tempo uomini d’azione e storici della propria azione, trasferendo la dottrina storicistica del giudizio storico a dottrina dell’azione pratica: la quale richiede soltanto la forza del nostro convincimento politico e morale e non il viatico dell’ineluttabilità storica.
Essere stalinisti ed essere la Storia è, dunque, per Canfora la stessa cosa: il conflitto, il duello mortale fascismo-comunismo in atto tra le due guerre e l’idea che la democrazia liberale avesse esaurito il suo corso e che il capitalismo fosse agli ultimi penosi sussulti del suo sviluppo e stesse per far posto alla dittatura del proletariato giustificherebbero ad avviso di Canfora la scelta per Stalin e per il mito dell’URSS, come luogo privilegiato della «nuova civiltà».
Canfora dice anche che, in quell’epoca, solo pochi liberali (Croce) furono «irriducibili» verso il comunismo (ma, aggiunge, «non verso il fascismo») e che «mezzo mondo — da Gide al Kuomintang, da Dos Passos ai Webb, al movimento di Ataturk — guardò all’URSS di Stalin come al fatto nuovo e positivo della storia mondiale», quindi sarebbe incongruo rimproverare ai dirigenti comunisti degli anni «trenta» di non essere stati, allora, antistalinisti.
Canfora giunge a respingere anche la proposta interpretativa avanzata da Norberto Bobbio – che peraltro segue la medesima linea sostenuta da Canfora spiegando il diffusissimo prestigio sovietico di quegli anni con l’opposizione fascismo-comunismo – per concludere che, con il senno di poi, è facile dire che si trattò di «un errore madornale, di un’aberrazione, di una stupidaggine … un tale strano ragionamento si caccia in un vicolo cieco»!
Ma ciò non si potrebbe dire anche di un qualsiasi altro accadimento della storia, compreso il fascismo? O dobbiamo rinunciare a giudicarlo?
In sostanza la tesi di Canfora è che il fascismo, quale esito finale del capitalismo e della crisi della democrazia parlamentare, di cui a un tempo fu causa ed effetto, era la realtà pesante e massiccia cui si opponeva il comunismo e che, pertanto, «non si può guardare alla scelta di allora con gli occhi di chi si è assuefatto ad una realtà in cui il fascismo non c’è più».
Il fatto è, però, che l’altro mezzo mondo – che non fu fascista né comunista – avvertì per tempo l’identità della natura dei due nemici in lotta, come varianti del totalitarismo, sia pure distanti tra loro nelle motivazioni ideali.
Non convince perciò il modo in cui Canfora giustifica la cosiddetta «svolta» del 1929-30, imperniata sull’identificazione della socialdemocrazia con il fascismo, e voluta da Togliatti nonostante il dissenso di Gramsci, che già languiva in un carcere fascista. Egli dice come sia poco noto che alla «svolta aveva cercato di opporsi lo stesso Togliatti», il quale, alla fine, dando priorità assoluta al principio dell’unità, si piegò ad accettare il dettato di Stalin (anche in ossequio all’altro suo mai rinunciato principio «secondo cui si accetta la linea vincente quando la propria critica è rimasta soccombente», e aggiunge una storia intricata e altrettanto poco convincente circa i rapporti Gramsci-Togliatti-Grieco.
La svolta, ne siamo convinti, non fu dovuta a mero istinto opportunistico. Al contrario mi pare importante sottolineare che, sebbene fosse possibile trovare dentro al partito stesso le ragioni del dissenso da Stalin, Togliatti e tutto il gruppo dirigente che lo attorniava decisero di fare del PCI uno strumento dello stalinismo, in quella che essi consideravano una guerra civile in corso, con una piena e convinta adesione ai suoi principi e ai suoi metodi.
Ma se tutto questo ha un senso e una dose di fondato realismo politico in relazione al quadro europeo e internazionale, più ambigua e discutibile appare la fedele collaborazione prestata da Togliatti a Stalin nella sua terroristica costruzione del comunismo in URSS, attraverso le grandi «purghe» e la sistematica eliminazione di milioni di oppositori (la glasnost gorbacioviana ha rivelato circa quaranta milioni di morti).
Il paradosso dei processi di Mosca appare tale, secondo Canfora, soltanto per il fatto che essi – che furono processi rivoluzionari – vengono valutati alla stregua di processi ordinari. Non so se Canfora si renda conto di quanto assurdamente giustificazionista sia la sua affermazione secondo la quale Bucharin, accettando di «confessare» e di subire la condanna a morte, compì il suo ultimo atto politico ed eroico per la vittoria del proletariato: Insomma Bucharin sacrificò consapevolmente la sua vita per non ostacolare la storia. La stessa cosa vale per Togliatti che capì tutto ciò e così promosse questa vittoria e l’avanzata del socialismo promuovendo le purghe di Stalin.
Canfora nega che si possa giudicare di quei tragici avvenimenti – non molto dissimili dal ‘terrore’ robespierrista – secondo i parametri di uno stato di diritto, poiché allora era in corso una «rivoluzione». Anche questa sua tesi ha un’apparenza di vero se ci si ferma alla formalità dei processi: ma essa cade del tutto se si giudica della «rivoluzione» e dei suoi risultati e se si valuta se essa abbia veramente corrisposto alle sue premesse e finalità, che erano quelle dell’espansione della libertà e della democrazia e non della loro soppressione.
Si può anche ammettere, come fa Canfora, che in URSS l’arbitrio rivoluzionario è stato eternato, divenendo privilegio di ceto o di gruppo; ma dicendo questo non ci si salva l’anima né lo si fa dicendo, come fece Berlinguer alcuni anni fa, che la «rivoluzione d’ottobre» aveva ormai perduto la sua forza propulsiva, poiché essa, quanto alle sue finalità, le perse molto presto e molto prima che Berlinguer se ne accorgesse»; del resto, nonostante qualche «strappo», i comunisti italiani non hanno mai cessato di considerare Mosca quale propria casa madre da cui prendere ordini e quattrini.
La ‘svolta di Salerno’ e il ‘Memoriale di Yalta’ sono gli altri argomenti forti portati da Canfora a sostegno della propria tesi e a riprova della grandezza politica di Togliatti: nel 1944 questi avrebbe capito che si era usciti dalla guerra civile e che bisognava cambiare strada. Egli decise così di porsi «saldamente e definitivamente sul terreno della democrazia parlamentare, anche nell’ambito di uno stato che non aveva cambiato la sua natura borghese», al fine di acquisire le posizioni di potere utili alla «lotta per una progressiva trasformazione, dall’interno, di questa natura», dunque in nome di una «rivoluzione differita». Insomma, per Canfora ci sono due Togliatti: si potrebbe dedurne una personalità schizofrenica ma Canfora trova l’escamotage per sfuggire alla tagliola della ‘doppia personalità’ e dice che «il Togliatti ‘democratico’ succede a quello ‘staliniano».
Ora, se ben si guarda, la «pluralità delle vie nazionali», l’idea su cui Togliatti ha insistito più di ogni altro leader comunista, è la tesi esattamente complementare allo staliniano «comunismo in un solo Paese»: significava percorrere vie diverse – nel significato, ovvio, della diversità degli ostacoli che si devono affrontare – per giungere ad una stessa meta, che sarebbe la trasposizione negli altri Paesi del modello sovietico, quando e come le condizioni storiche l’avessero consentito. Il comunismo restava uno in una pluralità di espressioni che sarebbe continuata almeno sino all’unità mondiale realizzata: una globalizzazione comunista anziché capitalista.
Il fine di Togliatti era dunque quello della conquista del potere per trasformare il sistema, dall’interno, ed egli usò volta a volta i mezzi che la storia gli offriva: la rivoluzione e il metodo-progetto staliniano quando se ne potette o dovette servire; il metodo democratico quando ne potette apprezzare la bontà e la potenzialità per i suoi fini. Ma la domanda che ci si deve porre è se questo sistema, verso il quale egli voleva guidarci, fosse in sé compatibile con la democrazia e la libertà e potesse essere, in ultima analisi, un fine da condividere.
Finalmente oggi il PCI si presenta – lo dice Canfora – come «la Socialdemocrazia italiana, l’analogo – per radicamento e peso sociale – della Socialdemocrazia tedesco-occidentale o del Labour party».
Ma – aggiungiamo noi – per cambiare pelle, se l’ha cambiata, ha dovuto attendere il crollo dell’illusione sovietica e del mito comunista.
Siamo dunque a quell’eutanasia del partito, che Guarini fa consigliare dal fantasma di Togliatti?
Può essere: ma Canfora aggiunge «una notazione forse spiacevole … che cioè questa scelta del PCI [in favore del sistema democratico-parlamentare] non può (e non deve) essere proclamata ‘eterna’ … perché le forme in cui, in futuro, si svilupperà lo scontro delle classi nel nostro pianeta non possono essere predeterminate da nessuno. Nessuno può escludere a priori future degenerazioni del sistema democratico-parlamentare … potrebbe essere lo stesso capitale a voler fare a meno di questa forma politica».
Una tale evoluzione sarebbe imprevedibile come imprevedibili sarebbero le scelte politiche cui un siffatto partito sarà chiamato per fare per far fronte alle nuove condizioni, naturalmente sempre in nome del suo fine storico, ‘rivoluzionario’.
 Ma come? Il materialismo storico non ci dice tutto di come deve andare la storia? E la rivoluzione proletaria non è l’esito finale e necessario della dialettica tra le classi? Evidentemente, Canfora pensa ad un PCI ‘eterno’ e a un ‘eterno’ PCI, eterno cioè nel metodo disinvolto di cui Togliatti fu maestro.
E allora, deludendo Guarini e il suo ‘fantasma’, diciamo che non possiamo e non dobbiamo dimenticare Togliatti e non soltanto per ragioni storicistiche – cioè perché la storia e gli uomini che la fanno non sono fatti per essere dimenticati – ma perché, dimenticandolo, dimenticheremmo pure le ragioni che ci imporrebbero di dimenticarlo, cioè gli errori se non le complicità moscovite: magari recitando la magnifica ‘ode’ di un ex comunista, il poeta messicano Octavio Paz:
«Il bene, volevamo il bene / raddrizzare il mondo./ Non ci mancò la rettitudine, ci mancò l’umiltà. / Quello che volevamo, non lo volevamo con innocenza./ Precetti e concetti, superbia da teologi:/ battersi con la croce, / edificare la casa con i mattoni del crimine, / decretare la comunione obbligatoria./ Alcuni divennero segretari dei segretari / del Segretario generale dell’Inferno. / La rabbia si è fatta filosofa, / la sua bava ha coperto il pianeta. / La ragione è discesa sulla Terra, / ha preso la forma del patibolo / e in milioni l’adorano».

 

Fonte Foto: Wikimedia CommonsGerman Federal ArchiveCC BY-SA 3.0 DE DEED

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