I CALCI DI LETTA

I CALCI DI LETTA

di Giuseppe Buttà

The game is over. Le elezioni sono finite con il risultato che era stato pronosticato da anni e che si era tentato di allontanare con tutti i mezzi. Nella conferenza stampa del giorno dopo il voto, il segretario del PD, Enrico Letta, si è presentato in lutto stretto dicendo che è «un giorno triste per l’Italia e l’Europa». Può darsi che abbia ragione ma, certamente, il giorno non è triste per la democrazia: il risultato viene da un giudizio severo degli elettori su quanto è avvenuto negli ultimi 10 anni; un giudizio severo sul comportamento degli uomini ai quali sono affidate le nostre istituzioni, tutte.

Un giudizio severo soprattutto sui neo-machiavellici che, inventando i governi dei ‘grandi’ tecnici, ci hanno disabituato alla democrazia: la conseguenza di questa invenzione è la nascita di partiti che, invece di proporsi di vincere le elezioni, hanno come scopo quello di non fare vincere nessuno in modo da potere infilare un governo piovuto dall’alto: scopo dichiarato dei nuovi ‘azionisti’ e ‘valoristi’ sommati.

Chi si è astenuto lo ha fatto per protesta; chi ha votato per il centro-destra non si era iscritto al Littorio. La ‘forza del regime’, con il suo quasi assoluto controllo sui mezzi d’informazione e su alcuni gangli vitali delle istituzioni e della società, questa volta non ha funzionato; il tentativo di dividere il paese evocando spettri di ogni genere – e di renderlo non governabile democraticamente – non è riuscito.

Ora, naturalmente, ci attendiamo il ‘rinascimento’ dei girotondi, delle parate ‘antifasciste’, delle informazioni di garanzia, etc., etc.. Ci attendiamo ‘autunni caldissimi’: per esempio, Conte lo ha già annunciato con appena un mezzo giro di parole.

Il decennale accanimento terapeutico per tenere in vita il PD con iniezioni di metadone di potere ha avuto dunque un esito infausto, non solo con la temuta vittoria del centro-destra ma anche con l’aggravamento della frattura nel paese. Un inutile spreco di energia, e un danno per l’Italia, è stata anche la disperata respirazione bocca a bocca durata ben cinque anni, fin dal 2018, dall’arrivo al Quirinale di Cottarelli che, col suo trolley, suscitò qualche simpatia nell’opinione pubblica ingenua: oggi infatti la candidatura di Cottarelli nelle file del PD ci rivela come anche questo tentativo di impastare un governo ‘tecnico’ di emergenza, non fosse per nulla una scelta neutrale.

Forse dovremmo concludere che meglio sarebbe stato per il PD se lo si fosse lasciato a irrobustirsi nella palestra dell’opposizione, lontano dal potere. Come ha detto Massimo Cacciari, gli uomini del PD – compresi i suoi più alti rappresentanti – «sono un insieme di politici che pensano solo a sopravvivere, che razzolano nel fondo del generoso barile della storia della Dc e della sinistra italiana. Tutto questo senza avere un’idea di futuro». La stessa cosa, e con parole più dure, l’ha detta Antonio De Caro, sindaco PD di Bari, che ha accusato i suoi compagni di partito di pensare solo all’occupazione del potere.

Come si sa, Letta era tornato da Parigi ricco delle idee da ville lumière, quelle presentate al pubblico italiano in un suo libriccino intitolato Anima e cacciavite; un titolo carico di sentimenti operaistici che Letta ha scelto non avendo avuto il coraggio di usare il vecchio logo della Falce e martello, forse più congeniale almeno a una parte dei suoi. Tra queste idee egli ne ha pescata una per la sua campagna elettorale e l’ha illustrata sul ‘Messaggero’, cioè di essere disposto «a prendere calci, pur di costruire un’alleanza elettorale capace di battere questa ‘destra’». In versione zoologica, egli ha minacciato pure ‘occhi di tigre’ come arma per la campagna elettorale: una pietosa illusione perché, infatti, Letta non ha saputo fare altro che avventarsi come un toro, infuriato da un panno nero, a caccia della Meloni.

E, fin qui, niente di male. Solo che, oltre a prenderli, Letta si è messo a dare calci. Egli ha preso quelli di Calenda, che prima gli ha imposto di ricusare i 5S e, poi, addirittura un trattato ineguale pretendendo per se stesso e per la sua eletta compagnia (contrassegnata dal segno + e tutta al di sopra dei comuni mortali) il 30 per cento dei collegi uninominali contro il 70% lasciato agli altri soci; Calenda infine gli ha imposto anche una clausola ’leonina’, quella di non candidare nei collegi uninominali i leader dei partiti con i quali Letta intendeva sottoscrivere un’alleanza: Di Maio, Fratoianni, Bonelli, etc., ciascuno marchiato dal pariolino con una lettera scarlatta: il primo per avere disfatto, quando era ministro dello sviluppo economico, le prodigiose misure che, nello stesso ruolo, Calenda aveva promosso nel governo precedente; gli altri per le loro ideologie massimaliste e, soprattutto, per essere stati sempre all’opposizione dell’idolo di Calenda, cioè l’Agenda Draghi.

Nel disperato tentativo di alzare dighe contro la coalizione di centro-destra, il povero Letta, una volta accettate le condizioni calendiane si è alleato anche con questi gruppuscoli forse senza nemmeno rendersi conto di quale rospo volesse fare ingoiare ai poveri Fratoianni, Bonelli e Di Maio imponendogli la clausola sottoscritta con Calenda: i poveretti si sono presi un infarto alla ‘panza’, come Capannelle, ma hanno accettato.

Nonostante il 30% di Maalox, volevo dire di collegi uninominali, Calenda non ha retto a questo colpo di genio: con un voltafaccia – che la Bonino ha definito ‘truffaldino’ oltre che il più repentino mai visto – ha lasciato Letta con una mano davanti e l’altra dietro. Il leader di Azione ha pure sferzato i suoi ex alleati di due giorni: «Questa coalizione [con Fratoianni e c.] è fatta per perdere, c’era l’opportunità di farne una per vincere. La scelta è stata del Pd, e io non posso seguire una strada dove la coscienza non mi porta». Letta se l’è cavata con una battuta piuttosto macabra, da humour noir, parigino: “Calenda ha un solo alleato: se stesso”.

Una pantomima politicamente e moralmente indecente – spacciata come ‘patto per la costituzione’ – con tutti i protagonisti a dire: «Aho! ‘Abbiamo l’accordo’! Ma non è un programma di governo! Siamo consapevoli delle differenze fra di noi … ma sappiamo anche che, per via della legge elettorale, il prossimo Parlamento, in caso di mancato accordo elettorale tra le forze progressiste ed ecologiste rischia di essere dominato dalle destre. Non lo vogliamo e ci batteremo per evitarlo … e ci presenteremo quindi ciascuno con il proprio programma elettorale, la propria visione sul futuro dell’Italia, pur nella comune volontà di dare a questo paese una svolta in senso progressista ed ecologista».

Solo che, tutti sommati, questi alleati non avevano un senso comune. Per onestà, bisogna ricordare quale sia stata la colla con la quale Letta ha tentato di ‘incollare’ la sua alleanza e di appiccicare la Meloni alle sue indegnità: il progressismo, ridotto però a un programma con un solo punto, l’aborto.

Per dovere di cronaca dobbiamo pure riferire che Prodi, da buon parroco, ha dato la sua assoluzione a questi uomini illuminati che si erano dovuti piegare al «compromesso inevitabile e alle distanze da superare»: insomma, secondo Prodi, dobbiamo ineluttabilmente affidarci a questi eroici ‘costruttori’ – forse gli stessi invocati col sermone di fine anno, 2020 – per un puro e rinnovato atto di fede nel trasformismo. E dobbiamo riferire anche come qualcuno, sul giornale debenedettiano, abbia poeticamente e compiaciutamente commentato questa necessità di fare una alleanza come che sia pur di non piegarsi al ‘destino cinico e baro’: «scarpe rotte eppur bisogna andare, direbbero i nipoti di Fausto Bertinotti e i figliocci di Nichi Vendola. Così fanno: Fratoianni e Angelo Bonelli, con la presidente di Europa verde Fiorella Zabatta, salgono al terzo piano del Nazareno e concordano con il leader Pd il testo di un ‘accordo’ solo ‘elettorale’».

Questo turno elettorale ha segnato dei record non solo con questa mostruosa ‘ruota pazza’ delle alleanze ma, soprattutto, per avere avuto in Mario Draghi un candidato ombra alla presidenza del consiglio: ci siamo meravigliati molto che Draghi, che è un uomo serio, tirato in ballo in varie forme – espressamente da Calenda e Renzi, surrettiziamente da Letta che sperava in Draghi come in una ciambella di salvataggio – abbia atteso fino a sette giorni dal voto per smentire una tale inusitata forma di candidatura che sottintendeva la speranza di un nuovo inciucio.

Ma, merito al merito. Il PD le ha tentate tutte, dal 2019, da quando sotto la guida illuminata di Bettini e Zingaretti – che, innamorati di Conte, volevano un matrimonio religioso con i 5S benedetto da Scalfari – fino alla surreale polemica che il sindaco di Firenze ha scatenato accusando la Meloni di avere sacrilegamente scelto per il suo comizio il Palazzetto dello sport intitolato a Nelson Mandela, dicendo cioè che i Fratelli d’Italia non dovrebbero poter entrare in un tale luogo perché ne profanerebbero la sacertà.

Se non è segregazionismo questo di Nardella, che cosa è il segregazionismo? Forse Nardella non sa che il primo gesto del Presidente Mandela fu quello di cercare la pacificazione con chi l’aveva tenuto in prigione.

Anche Letta, dopo che, come un cireneo, si è pure caricato addosso la croce di front runner, le ha tentate tutte: ha preso e dato calci; ha demonizzato gli avversari appellandosi all’unità antifascista; ha lanciato un lugubre allarme per il pericolo che la destra potesse disporre di una maggioranza in grado, da sola, di porre mano alla revisione della costituzione in senso presidenzialistico e autoritario; ha fatto nientepopodimeno che il ‘patto per la costituzione’ addirittura con Fratoianni; ha anche dato l’esempio ecologista del minibus elettrico; ha chiesto il voto utile; ha tirato fuori i rapporti della Meloni con Orbàn (dimenticando però di guardare anche in casa propria, dove uno dei leader rampanti del PD, Andrea Orlando, è andato a Bogotà per rendere il suo omaggio ligio al compagno Gustavo Petro); ha attaccato la flat tax e il progetto delle autonomie rafforzate; ha tirato fuori l’asso dalla manica: il dono di 10.000 euro ai diciottenni da parte degli eredi di Berlusconi e dei suoi colleghi ‘paperoni’; ha fatto una scorpacciata di ‘sardine’; ha fatto di Pontida una provincia magiara regalandola all’Ungheria; dopo aver definito Conte e i 5S inaffidabili e fedifraghi, ha auspicato che questi potessero erodere consensi alla destra (ma, dall’avvocato del popolo, si è sentito rispondere che mai e poi mai i 5S torneranno a dialogare con questi vertici nazionali del PD – forse Conte c’è l’ha con Letta?); ha denunciato le ingerenze straniere sventolando il dossier americano sui finanziamenti russi ai partiti continuando ad attaccare a testa bassa, come un toro infuriato, nonostante le smentite di Gabrielli, di Draghi, di Blinken (forse Letta ricordava i passati finanziamenti al PCI da parte dei compagni sovietici – e certo, allora, i finanziamenti che i comunisti prendevano dai sovietici configuravano un vero e proprio reato di intelligenza con il nemico – e alla DC dagli amici americani).

Ma ciò di cui dobbiamo essere maggiormente grati a Letta è la lezione di europeismo che ha impartito: ha attaccato il ‘sovranismo’ di Meloni e Salvini e ha accettato di buon grado quello di Macròn e di Sholtz, nonché dell’Olanda, spiegandoci che c’è un’Europa di serie A e una di serie B e che l’Italia sarà condannata alla serie B se sarà il centrodestra a governarla: forse Letta ha imparato questa in Francia questa idea d’Europa strana, fatta di ‘assi’, alleanze e interessi più o meno egemonici, un’idea che spiega perché l’Europa non è mai entrata nel cuore di molti). È per questa sua ‘sensibilità’ europeista che Letta è andato a farsi strabenedire da Sholtz che gli ha pure dato non so se un buon suggerimento o un ‘imperativo categorico’: «la post-fascista di FdI non deve vincere!».

Il bello è che Letta ha poi pure messo una pezza peggiore del buco per giustificare il suo patto d’acciaio con Berlino: «Siamo stati molto attaccati per questa cosa di Berlino, si vede che altri, in una logica semplicemente autarchica e completamente domestica, pensano di risolvere i problemi del Paese, non è così… Le proposte e le soluzioni autarchiche, completamente provinciali [e già, lui è parigino] che la destra di Meloni propone per l’Italia non sono quelle giuste. Ieri si è capito bene, ci sono due idee di Italia diverse, un’Italia come quella di Draghi che a Bruxelles conta e un’Italia che in Europa protesta, che propone Giorgia Meloni».

Forse Letta pensa che non ci sia nulla per cui protestare in Europa?

Infatti, egli ha tutte le ragioni per non protestare avendo saputo trarre dall’Europa tutti i vantaggi possibili: Gentiloni ha fatto sapere tempestivamente che, se in Italia qualcuno avesse intenzione di non tenere i conti in ordine, dovrà vedersela con lui; Dombrovskis ha avvertito che di ‘rinegoziazione’ del PNRR non si può nemmeno parlare; l’alleato Macron ha fatto annunciare che l’EDF nei prossimi anni ridurrà la vendita di energia elettrica all’Italia (specialmente se sarà governata dai ‘sovranisti’) mentre aumenterà la fornitura di energia alla Germania; la Von der Lyen, due giorni prima delle elezioni, ha fatto sapere che l’Italia deve rigare dritta se no subirà le sue ire personali e quelle dell’Europa tutta. Tutti questi signori sono animati da una visione alta dell’Unione Europea. E poi dicono che in Italia non ci sono ingerenze straniere!

A giustificazione di questo comportamento furioso del segretario del Pd si potrebbero portare le suddette iniezioni di metadone – che sono di per sé tossiche – e quelle ‘alte’ lezioni di trasformismo che hanno portato il suo partito alla laurea in questa disciplina, agl’inizi del 2021, con una tesi sulla ‘ricerca dei costruttori’.

Letta ora comincia a sentire la nostalgia di Parigi: perché imporgli il sacrificio di non tornarvi? I suoi allievi di sciences po’ lo aspettano a braccia aperte per apprendere dalla sua propria bocca come e qualmente egli abbia rovesciato il concetto di coalizione in quello, più terra terra, di ‘campo largo’: com’è noto e come Gianfranco Pasquino ha ricordato a Letta, la coalizione «si fa tra partiti che sono vicini, geograficamente vicini, ideologicamente compatibili, in grado di convergere su quelle che ritengono essere le priorità del Paese» – quanto poi al ‘campo largo’, si sa che nello stesso campo non si possono piantare insieme cetrioli e cavoli. Insomma, il prof. Pasquino boccerebbe Letta a un esame di scienza politica perché, «evidentemente, non conosce la teoria delle coalizioni».

Spero che Letta, dopo aver perduto le elezioni, non perda ora anche la cattedra parigina.

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