La legge elettorale *

La legge elettorale *

di Guido Di Massimo

L’ultima legge elettorale aveva esaurito il suo ciclo di vita. Ci voleva una nuova legge. Ma non era facile: erano troppi gli interessi contrapposti che impedivano l’obiettività necessaria per una legge condivisa.
Il Parlamento discusse ma non riuscendo a cavare un ragno dal buco decise, come sempre in questi casi, di nominare una commissione che fu subito detta – nessuno seppe perché – di saggi. E questa commissione di saggi, non riuscendo a concludere nulla, nominò a sua volta subcommissioni, dette – chissà perché – di esperti.
La prima subcommissione arrivò alla conclusione che la regola “per ogni testa un voto” non era più sostenibile: voti e teste non andavano contati ma pesati.
Un buon modo per pesare i voti poteva essere quello considerare l’interesse personale al buon andamento della società. La misura di questo interesse fu trovata nella “aspettativa di vita” residuale di ognuno. Chi ha molto da vivere ha necessariamente un grande interesse alla buona politica e alla buona amministrazione, mentre chi è al limite della propria vita può avere al massimo interesse al basso costo delle pompe funebri.
Era possibile individuare per ogni elettore – a seconda degli anni, della longevità degli antenati, del DNA e dello stile di vita – l’aspettativa di vita residua; ed era questa che veniva proposta come “peso” del voto di ognuno. L’unico punto interrogativo poteva riguardare il peso da attribuire ai neonati che hanno aspettativa di vita alta ma la testa vuota e quindi, necessariamente, dovevano avere peso del voto pari a zero: si propose di non far votare nessuno al di sotto dei cinque anni di età; ma tra le inviperite proteste di mamme e papà che vedevano i loro piccoli geni ingiustamente depauperati del più elementare dei diritti democratici.
Anche una seconda subcommissione sosteneva che i voti andavano pesati; sosteneva però che il modo migliore per pesarli fosse quello del numero dei figli dei votanti. Sosteneva che nel Paese tutti parlavano di figli, che qualunque cosa facessero la facevano per i figli, che lavoravano, raccomandavano, imbrogliavano e rubavano sempre e solo per i figli, e che  adoravano i figli che erano tutti geni intelligentissimi, bellissimi e avevano diritto a un avvenire meraviglioso. Quindi un votante più figli aveva più avrebbe votato con responsabilità e lungimiranza. Di conseguenza era del tutto corretto “pesare” ogni voto in base al numero dei figli del votante.
Una terza subcommissione di esperti escogitò il sistema dei “biglietti elettorali a pagamento”: anche questa fu un’ottima idea. Tutti potevano concorrere alle elezioni e tutti potevano votare, ma il “peso del voto” sarebbe stato pari al numero dei biglietti comprati. Chi non comprava biglietti avrebbe votato con peso nullo, chi comprava un biglietto avrebbe votato con peso uno e chi comprava un milione di biglietti avrebbe votato con peso un milione. Con questo sistema un candidato, invece di spendere per la propaganda elettorale poteva finanziare l’acquisto di biglietti elettorali rimpinguando le casse dello Stato che così avrebbe ridotto le tasse; e lo stesso candidato sarebbe stato visto come un grande benefattore della collettività. Il sistema avrebbe avuto però l’inconveniente che dopo le elezioni il candidato che avesse vinto si sarebbe dato da fare per recuperare con qualche aggiunta i soldi “investiti”. Ma questo inconveniente avrebbe potuto essere superato con un voto di povertà del candidato a nome proprio e di tutta la sua famiglia allargata o, in alternativa, con dieci anni di carcere senza processo da scontare al termine del mandato.
Una quarta subcommissione escogitò il metodo del sorteggio: ad ogni elettore sarebbe stato associato un codice, che poteva benissimo essere quello fiscale che era già pronto, e gli eletti sarebbero stati estratti a sorte. Il vantaggio sarebbe stato che mancando una selezione difficilmente gli eletti sarebbero stati i peggiori, come capita di regola quando vengono scelti.
La quinta subcommissione propose che votassero solo le donne escludendo gli uomini che, da che mondo è mondo, ne hanno combinate di tutti i colori. Ma a questa proposta si opposero le donne lamentando un eccesso di incombenze, a fronte degli uomini che, come al solito, rifuggivano dalle responsabilità.
Le altre subcommissioni fecero ulteriori proposte: elezioni “a campione”, elezioni a voto multiplo, elezioni con premi di minoranza e premi di consolazione, elezioni una sola volta nella vita, con un solo voto per famiglia o unione civile, elezioni per settori di arti e mestieri, per lobby e altre ancora di cui molte strampalate o non serie e scartate a priori.
Tutte le proposte rimasero però proposte: nonostante le discussioni non se ne venne fuori. E non volendo nessuno votare con la vecchia legge elettorale finì che il Parlamento divenne ereditario. Fu così che, con tocco britannico, il Parlamento fu da allora chiamato in blocco “Camera dei Lordi”; cosa di cui i parlamentari andarono particolarmente fieri.

*tratto dall’opera di Guido Di Massimo, “Il cane col papillon” (edizioni Robin), per gentile concessione dell’Autore

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