NON MI RASSEGNO ALLA POLITICA DEI DOSSIER

NON MI RASSEGNO ALLA POLITICA DEI DOSSIER

di Giuseppe Gullo

Dobbiamo rassegnarci all’idea che la campagna elettorale e l’esito del voto siano determinati e/o condizionati dalla battaglia dei dossier che è già esplosa sprigionando odori mefitici che ammorbano l’aria e la rendono irrespirabile?  Ci sono molti segnali che concorrono a creare legittima preoccupazione in coloro che sperano che il confronto avvenga sui problemi che interessano la società, le persone, tutti noi. Giornalisti di lungo corso, alcuni con un passato in politica in posizioni di grande responsabilità, rilasciano dichiarazioni inquietanti e, per molti versi, esplosive. Guzzanti in un’intervista a Libero:”In tutta la mia carriera, sin dai tempi dell’Avanti, da Repubblica a La Stampa, i Servizi hanno sempre almeno un giornalista amico in redazione. In commissione Mitrokhin venne un teste, tal colonnello Faraone (ebbe la carriera stroncata), che ci raccontò come i Servizi per nascondere i dossier non li bruciavano, semplicemente ne cambiavano posto. Esiste sempre una connessione purulenta tra giornali e 007. Nei nostri Servizi – fino a quando li frequentavo io – le carriere si facevano per raccomandazione e interessi politici»; e poi ancora”Sono vecchio da ricordarmi che quest’uso dei documenti segreti c’era sin dagli anni ’60. Scalfari e Iannuzzi sull’Espresso partirono con i “valzer delle bobine” e con i tentativi di colpi di Stato culminati in candidature politiche per scampare alla condanna in galera. La macchina del fango si attiva storicamente con tutti, Mancini, Craxi, Berlusconi, Renzi».

Chi per età e interesse ricorda i molti scandali che si sono succeduti in più di mezzo secolo ha molti motivi per credere a questo intreccio malsano, agli obiettivi spesso inconfessabili che esso si prefiggeva, alle vittime incolpevoli che ha mietuto e alle coperture interne e internazionali di cui ha goduto. Siamo sempre allo stesso punto? Dobbiamo aspettarci fino al 25 settembre un crescendo di rivelazioni e di fango diretto in tutte le direzioni? Lo vedremo presto.

Non possiamo, a maggior ragione, rinunciare a cercare di discutere di contenuti nel tentativo di mettere a fuoco questioni che riteniamo importanti per il Paese.

Alcuni cavalli di battaglia della destra leghista e populista mi sembrano alquanto sfiancati. In primo luogo l’immigrazione e le parole d’ordine che hanno reso famoso, ahi noi, il capo della Lega in divisa di Ministro dell’Interno. Nel 2021 sono sbarcati sulle coste meridionali italiane 67.000 persone. Nello stesso periodo in Germania vi sono stati 441.000 richiedenti a fronte di 80.000 nel nostro Paese. Prescindo da altre considerazioni, valide e importanti, per osservare che in un Paese che ha un saldo negativo delle nascite e una popolazione anziana, e in cui alcuni lavori vengono rifiutati dai nostri connazionali, il numero di immigrati di cui parliamo è il minimo per consentire alla nostra economia di mantenere i livelli produttivi acquisiti.

In materia fiscale la proposta della tassa piatta (flat tax) , per quanto ritenuta allettante tra i ceti con reddito medio-alto, è stata giustamente collocata da una larga parte dell’opinione pubblica tra le misure che si propongono di far pagare meno tasse ai ricchi e di affossare il sacrosanto principio costituzionale (art.53) della progressività delle imposte secondo la regola che chi ha di più deve dare in misura progressivamente maggiore alla collettività.

La proposta di un serio intervento in materia di defiscalizzazione del costo del lavoro è di tutte le forze politiche con differenze rilevanti relative all’assunzione dei relativi oneri. La pace fiscale, che maschera un nuovo condono, è invece il ricorrente tentativo di fare cassa, consentendo ai ceti più abbienti di sanare a costo basso o comunque contenuto gravi situazioni di evasione o elusione. L’argomento ha una certa presa su una parte dell’elettorato, ma non va nella direzione giusta che è quella di diminuire la pressione sui ceti bassi e medi, cercando e trovando l’evasione laddove essa più facilmente e diffusamente si nasconde e cioè tra le grandi fortune e i redditi più elevati.

Per quanto riguarda la politica estera, non c’è dubbio che la prospettiva di un Governo di destra è vista dall’Europa e dagli USA con molta freddezza e qualche preoccupazione, solo mitigata dalla posizione atlantista di Giorgia Meloni. D’altro canto come potrebbe essere diversamente se si considera che i maggiori partiti di quello schieramento hanno ancora rapporti preferenziali e di stretta collaborazione con Orban, Le Pen e tutto il fronte populista del continente? Qualcuno ha dimenticato la mortificazione che ha dovuto subire Salvini in Polonia a opera di uno sconosciuto amministratore locale? Cosa resta di realmente valido nelle proposte della destra? Poco o nulla a ben vedere, solo qualche slogan che tenta di colpire l’immaginario collettivo : “Prima gli Italiani”, “confini sicuri” e simili, come se ci fosse qualcuno che proponga, che so, prima gli Ungheresi oppure apriamo le frontiere senza limiti e controlli!

Il discorso diventa più impegnativo nel momento in cui occorre mettere nero su bianco le proposte del fronte progressista. I temi di confronto diventano decisivi sia per arginare il crescente assenteismo, sia per motivare e impegnare l’elettore nella scelta. Aspetti questi complementari, strettamente connessi e parimenti importanti. Perché votare in una condizione nella quale una parte del gioco è sporco (dossier) e l’altra viene decisa nel chiuso delle stanze delle segreterie dei partiti? La risposta è complessa rispetto a interrogativi che hanno fondamento. Il diffuso sentimento anti casta che ha avuto nell’eccezionale risultato del M5S nel 2018 una clamorosa e concreta manifestazione, non è finito con la diaspora del movimento fondato da Grillo. I 5S non erano pronti per governare, non avevano una classe dirigente all’altezza del compito, erano stati selezionati con un meccanismo che prescindeva dalle qualità e dalle attitudini sulla base di un’affermazione in sé errata e inaccettabile, “uno vale uno”. Questo principio è cogente per quanto riguarda il riconoscimento del diritto di elettorato, ma non vale e non può valere nel momento in cui si tratta di scegliere chi si deve fare carico di scelte importanti per milioni di cittadini e per l’intera Nazione. Non si può affidare il Governo a chi non conosce neppure le regole basilari della politica, se non avendo la certezza di andare incontro al fallimento.

I dati di questi giorni attestano che l’occupazione stabile del Paese è sopra il 60%, ai livelli degli anni di crescita della seconda metà degli anni 70 del 900, con un andamento positivo superiore a quello della Germania, della Francia e dell’Inghilterra. E’ un caso? Certamente no! E’ il frutto di un anno e mezzo di buon governo e di scelte oculate. I problemi sono risolti? Sicuramente no! Sono diminuiti ma il debito pubblico è sempre altissimo, la sanità annaspa sotto i colpi della pandemia, il fisco è ingiusto e onnivoro, la giustizia è malata e viene curata con aspirine invece che col bisturi, la pubblica amministrazione ha larghe sacche di improduttività e arretratezza. Eppure l’economia tira come un treno lanciato ad alta velocità e in molti settori l’offerta di lavoro supera ampiamente la domanda. Queste considerazioni mi sembrano più che sufficienti per andare a votare con tutti i limiti di una legge elettorale sciagurata e di un tatticismo sfiancante dei partiti che fa venire voglia di fare altro.

Questo non basta. Occorre anche che l’elettore sappia che cosa si propone di fare il partito o la coalizione che sceglie. Partirei dalla qualità e competenza degli eletti. La legge elettorale, peraltro in odore d’incostituzionalità, sulla quale pende un giudizio davanti alla Corte di Appello di Messina promosso da un gruppo di giuristi siciliani, attribuisce ai partiti e ai loro capi la possibilità di indicare gli eletti. E’ profondamente sbagliato ed espropria tutti noi del diritto di scegliere, ma è così. Spetta ai partiti che fino ad oggi, con poche eccezioni, hanno privilegiato la fedeltà e l’appartenenza, dare priorità alle capacità di coloro che saranno scelti per svolgere le funzioni di legislatore in assemblee con un numero ridotto rispetto al precedente e quindi maggiormente gravate di responsabilità e di lavoro.

Sarebbe opportuno rendere pubblici i curricula dei candidati sia all’uninominale che al proporzionale, perché ciascuno sappia per chi vota e quali sono le competenze del possibile eletto. Subito dopo inserirei i diritti civili così negletti da essere considerati, a torto, sempre rinviabili. Occorre assumere precisi impegni sul fine vita, lo ius scholae, l’ergastolo ostativo, dare la giusta priorità a legiferare in materia di attribuzione del cognome dopo la sentenza della Corte Costituzionale, rivedere con il giusto equilibrio ma con apertura e disponibilità tutta la legislazione in materia di accoglienza e integrazione.

Questo e altro meritano attenzione e approfondimento da qui al 25 Settembre.

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