SCARICABARILE E CINGHIA DI TRASMISSIONE

SCARICABARILE E CINGHIA DI TRASMISSIONE

di Giuseppe Gullo

L’affermazione è talmente ovvia da potere sembrare banale ma in essa è contenuta una incontestabile verità. La differenza tra un politico accorto e di livello e uno, per così dire, “normale” consiste anche, e in misura rilevante, nel modo in cui il primo affronta l’impatto con la realtà del Governo. Chi si propone per una carica elettiva importante deve già avere chiara in mente l’idea di come affrontare nell’immediato le questioni più urgenti (di cui si presume conosca i dati fondamentali) collegate al mandato per il quale ha richiesto il consenso degli elettori. Se non l’ha fatto, non solo dimostra superficialità ma anche scarsa fiducia nella possibilità di ottenere quell’incarico.

In realtà è una pessima abitudine di quasi tutti coloro che subentrano a precedenti governanti, sia a livello nazionale che regionale o comunale, quella di attribuire ogni manchevolezza, insufficienza o ritardo a coloro che li hanno preceduti. Questo avviene per molti mesi, talvolta per anni fino a quando il tempo trascorso è tale per cui è più vicina la fine del mandato che il suo inizio. Invece di utilizzare la strada maestra di riferire subito, e in modo il più possibile completo, al Parlamento o al Consiglio regionale e/o comunale lo stato effettivo delle pratiche più rilevanti ed urgenti indicando quali iniziative s’intende prendere e con quale scadenza temporale per affrontarle, si ricorre al consunto gioco dello scaricabarile che non sortisce alcun effetto positivo per nessuno né l’uscente né il subentrante. Chi viene sostituito non ha avuto il sufficiente consenso da parte degli elettori, tant’è che è stato costretto a passare la mano, chi invoca responsabilità passate appare, giustamente, come chi teme di non potere affrontare al meglio i problemi. Speriamo che questa pratica deteriore ci venga almeno per il prossimo futuro risparmiata.

Su un altro versante, distante dal primo ma anch’esso gravido di refluenze politiche, registriamo il ritorno in piazza del maggior sindacato italiano, la CGIL, storicamente legata alla sinistra ed in particolar modo al PCI e ai suoi eredi politici. In un momento di così acuta crisi politica ed economica con l’inflazione e il caro bollette che colpiscono pesantemente i redditi medio-bassi, il ricorso da parte delle organizzazioni dei lavoratori a manifestazioni di massa, come si definivano fino a qualche anno fa, è del tutto fisiologico se non vi fossero due elementi molto importanti da considerare che ne mettono in discussione l’opportunità.

Il primo è il fatto che in questo momento e ancora per qualche settimana, il Paese è guidato da un governo dimissionario in carica per gli affari correnti e pertanto non in condizione di assumere alcuna decisione in ordine agli importanti temi posti dal sindacato al centro della manifestazione e cioè la tutela del lavoro in primis. Problema importantissimo sul quale è necessario mobilitare la maggiore quantità possibile di categorie, produttive e non, sul quale però sarebbe stato opportuno avere un interlocutore istituzionale nel pieno dei propri poteri e in condizione di dare risposte chiare e immediate. Non sarebbe stato possibile attendere qualche settimana? Non sarebbe stato più utile e, se mi è consentito, anche più incisivo manifestare allorché tutto il “tavolo” fosse stato completo in tutte le componenti? Tutto sommato, chi dice che si manifesta contro un governo che non c’è a più di qualche ragione.

Il secondo elemento è l’improvviso risveglio dell’organizzazione dei lavoratori due settimane dopo l’esito delle elezioni, dopo l’assordante silenzio durante tutta la campagna elettorale. E’ chiaro a tutti che la natura del sindacato è profondamente cambiata, in particolare quella della CGIL. Molti ricordano, penso, la teoria, che trovava pratica applicazione, del sindacato come “cinghia di trasmissione”, sia per affrontare le questioni del mondo del lavoro, sia per trasferire quadri dirigenti e consensi elettorali dai sindacati ai partiti e soprattutto ai maggiori di essi. Il sindacato cattolico, meglio i sindacati d’ispirazione democristiana CISL e ACLI soprattutto, lo facevano con la DC; la UIL coi partiti del centro sinistra, soprattutto PSI ma non solo; la CGIL in gran parte col PCI.

Le segreterie generali e territoriali venivano decise in ambito politico così come la scelta dei c.d. funzionari i quali lavoravano a tempo pieno per l’organizzazione. Durante le campagne elettorali le sedi del sindacato diventavano centri di ricerca capillare del consenso, nel caso del PCI, secondo le direttive provenienti dalle federazioni. Il cursus honorum si concludeva per i vertici dell’organizzazione sempre in Parlamento secondo una consuetudine di cui non conosco eccezioni.        Da tempo lo tsunami che ha travolto i Partiti “storici” ha modificato questo sistema nel senso che la scomparsa della DC, del PSI, e degli altri partiti di centro ha eliminato i riferimenti naturali dei sindacati cattolici e laici di matrice non comunista, mentre il PD, seppure in forma molto attenuata, è rimasto il referente della CGIL.

Tutto ciò, qui riferito per estrema sintesi, giustifica l’assenza della voce sindacale nella campagna elettorale conclusasi con il voto del 25 Settembre? Qualcuno ha memoria di proposte, iniziative, dibattiti o altro promossi dal sindacato nelle passate settimane? Se ci sono state, mi sono sfuggite ovviamente per mia trascuratezza. Ciò che non mi è sfuggito è che le ex segretarie generali della CGIL e della CISL, Camusso e Furlan, sono state entrambe elette in Parlamento nelle liste del PD. Potrebbe essere accaduto che la “cinghia” si sia trasformata in cinturino o, forse, è una mia malignità! Celebrate le elezioni con l’esito che conosciamo, prima ancora che gli organi eletti siano operativi, ecco che le piazze si riempiono e le bandiere riprendono a sventolare per replicare una scenografia mille volte vista. Sono mancate soltanto, mi dicono, gli inni che ingentilivano queste manifestazioni. Ma per essi si aspetta una voce che li intoni senza steccare!

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