STIAMO MEGLIO IN ECONOMIA, MA PEGGIO IN POLITICA!

STIAMO MEGLIO IN ECONOMIA, MA PEGGIO IN POLITICA!

di Giuseppe Gullo

Siamo tutti più ricchi? La domanda nasce spontanea leggendo i resoconti giornalistici delle Considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia lette qualche giorno fa davanti ad una platea selezionatissima rappresentativa dei vertici delle Istituzioni, delle imprese, delle banche e dei massimi esperti di economia del nostro Paese.

Il Governatore, sulla base delle analisi del centro studi della Banca centrale, sicuramente uno dei migliori d’Europa, ha dichiarato che il reddito medio equivalente delle famiglie è cresciuto del 4% rispetto al periodo 2016/2020, che la crescita del PIL nell’ultimo trimestre è stato dello 0,1 per cento rispetto alla previsione di un – 0,2%, che la bilancia dei pagamenti, nonostante l’aumento del costo delle materie prime, è largamente positiva, che la percentuale dei poveri è diminuita dell’1,7%, che i crediti deteriorati della Banche sono scesi a livelli europei, che il credito alle imprese è garantito, che la percentuale dell’indebitamento pubblico è scesa con tendenza analoga per l’anno corrente, che tutti i parametri fondamentali sono positivi pur in presenza di una crescita dell’inflazione che tuttavia è inferiore rispetto a quella dei grandi Paesi Europei, che i depositi bancari su conto corrente sono aumentati di 88 miliardi.

Non mancano, ovviamente, le criticità. Il divario di reddito tra centro-nord e sud è del 45%, il lavoro femminile e giovanile è in sofferenza, il debito pubblico, sebbene in calo, è troppo elevato, alcune riforme preannunziate (giustizia, fisco, catasto,) non sono state varate, la produttività delle imprese è sempre bassa.

Il quadro complessivo è positivo se si tiene conto dei due eventi eccezionali accaduti negli ultimi anni, e cioè la pandemia e la guerra in Ucraina. L’autorevolezza della fonte delle informazioni sopra riferite è tale da smentire in modo clamoroso coloro che vanno predicando l’inizio della catastrofe e la fine inevitabile del nostro sistema produttivo con le inevitabili ricadute sociali e politiche. Il sistema economico italiano, basato sul manifatturiero e su una rete di piccole e medie industrie estremamente creativa e dinamica è sano, e ha saputo resistere all’impatto della chiusura conseguente alla pandemia e alle difficoltà di approvvigionamento di materie prime dovuto alla guerra. La grande massa di denaro immessa sotto forma di agevolazioni, sgravi fiscali, contributi a fondo perduto o a tasso agevolatissimo hanno fatto il resto. In alcuni settori prevalentemente stagionali la domanda di manodopera rimane insoddisfatta sia per la concomitante presenza di sussidi pubblici che per i bassi salari. Il vero anello debole è la politica o, per meglio dire, la sua mancanza.

L’attuale Governo con una maggioranza molto ampia ed eterogenea, è nato in una situazione di emergenza e con la fine della Legislatura esaurisce il suo mandato. L’autorevolezza della sua guida ha fatto sentire i suoi benefici ma aveva un compito limitato che volge al termine. La fase successiva è tutta da scrivere.

In molti oggi invocano il ritorno dei Partiti quali veicolo del voto e fucina della classe dirigente. Il prof. Cassese ha scritto da par suo un bell’articolo sull’argomento. In esso sostiene alcuni principi sacrosanti e cioè che la fine dei Partiti come li abbiamo conosciuti nella c.d. prima Repubblica, in realtà, a mio giudizio, la sola che vi sia stata, ha rappresentato una deminutio della democrazia e ha aperto le porte a formazioni politiche estemporanee senza programmi, senza classe dirigente, senza adeguata preparazione, senza senso dello Stato e del Governo, fondate su malesseri sociali e parole d’ordine qualunquiste.

Non si sofferma, l’illustre giurista, sulle ragioni della loro scomparsa e ne dà un’immagine solo in parte corrispondente alla realtà. I Partiti erano scuole e palestre di formazione senz’altro. Qualunque dirigente, con poche eccezioni, doveva fare la “ gavetta” e imparare il “mestiere” della politica e del Governo. Quasi sempre l’ingresso nel Governo della pubblica amministrazione avveniva dopo anni di impegno e di rapporto con la gente da cui si apprendevano i problemi e insieme alla quale si individuavano le soluzioni. Nessuno, o quasi, per quanto preparato e/o acculturato veniva proiettato nella sfera di Governo se non aveva alle spalle una adeguata formazione e se non conosceva i meccanismi di formazione delle decisioni amministrative. I due livelli erano diversi e, giustamente, venivano tenuti separati.

Nello stesso tempo avevano limiti evidenti e gravi. Il primo, a mio avviso, era la lotta intestina che spesso individuava l’avversario in chi era in un’altra corrente e non in chi era fuori dell’organizzazione del Partito. Talvolta, non era raro, si preferiva non conseguire un risultato se questo avrebbe potuto rafforzare il competitore interno, o si preferiva che un certo incarico venisse assegnato ad altri diversi dal militante della stessa formazione politica. Vi erano posizione e decisioni che venivano prese “per conto terzi”, e cioè su richiesta, il più delle volte riservata, di un’altra formazione politica. Vi erano perfino dei membri del Parlamento che venivano eletti per un accordo trasversale con un altro Partito che, al Senato principalmente, faceva confluire voti su un’altra lista o candidava un soggetto poco rappresentativo o inviso o addirittura sconosciuto per favorire l’amico che si presentava sotto un simbolo diverso.

Vi era una forma di democrazia anomala, per così dire, nel senso che i rapporti di forza venivano decisi tra correnti e non sulla base della manifestazione di volontà del singolo iscritto. Spesso le percentuali erano decise a tavolino sulla base di rapporti di forza presunti.

A fronte di questo vi era reale partecipazione, dibattito interno a volte aspro ma continuo, possibilità di emergere sulla base delle qualità personali sebbene non fossero rari i casi di capi corrente che imponevano i loro preferiti a scapito di chi aveva maggiore attitudine. Soprattutto a sinistra il rischio scissione, come la Storia ha dimostrato, era fortissimo per ragioni ideologiche e non. Pur tuttavia erano organizzazioni che sviluppavano linee politiche, formavano dirigenti ed erano un argine contro l’improvvisazione e il dilettantismo. La politica, come ogni altra attività, richiede applicazione, attitudine e impegno. Non è un passatempo o un circolo di dopolavoro.

Rimetterli in vita è un’impresa disperata. Chiunque abbia visibilità e denaro ritiene di potere formare un proprio movimento e intraprendere l’avventura su scala nazionale. Il prof. Cassese fa riferimento alle tre grandi tradizioni culturali e politiche della storia repubblicana, quella cattolica, la socialista e la liberale. Se non si parte da lì qualunque movimento avrà le gambe corte e il respiro affannoso. Nessun congegno elettronico ha ancora superato la capacità di elaborare e sviluppare idee. Le idee tuttavia camminano sulle gambe degli uomini e facendo una panoramica il più possibile obiettiva sui dirigenti delle maggiori forza politiche, con qualche eccezione, si deve amaramente considerare che improvvisazione e pressapochismo la fanno da padrone.

Un leader politico non si inventa, è il risultato di anni di lavoro e deve essere riconosciuto tale dagli altri. Chi, al giorno d’oggi, saprebbe fare più di due o tre nomi che lo meritino?

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